La riforma costituzionale

Il presidenzialismo della Meloni è un pasticcio: la fiducia al premier è illegittima

La Corte costituzionale l’ha bocciata in Toscana (372/2004), Emilia Romagna (379/2004) e Abruzzo (12/2006). Ma i Fratelli costituzionalisti d’Italia fanno fi nta di nulla. Guai grossi in vista

Editoriali - di Salvatore Curreri - 15 Dicembre 2023

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Il presidenzialismo della Meloni è un pasticcio: la fiducia al premier è illegittima

Nereo Rocco, dopo la clamorosa vittoria del suo Milan sull’Atalanta per 9 a 3, dichiarò che più che essere soddisfatto per i nove gol fatti, era preoccupato per i tre subiti.

Così, concluso il primo ciclo di audizioni dei costituzionalisti al Senato sulle proposte di riforma costituzionale presentate dal Governo e dal sen. Renzi, accomunate dall’introduzione dell’elezione diretta del Primo Ministro, più che concentrarsi sulla messe di critiche piovute da quasi tutti gli auditi (compreso chi scrive: vedi il mio intervento pubblicato in questo giornale il 3 e 5 novembre), vale la pena piuttosto affrontare le lodi ricevute da (invero pochi) colleghi.

Anche perché nel diritto gli argomenti, per fortuna, non si contano ma si pesano, cioè valgono per la loro fondatezza giuridica e non perché sostenuti dalla maggioranza. Per questo cominciamo oggi una serie di articoli dedicati ai pretesi e presunti profili positivi della riforma.

Iniziamo con la tesi secondo cui il fatto che il presidente del Consiglio, nonostante sia stato eletto direttamente, debba presentarsi con il suo Governo alle Camere per ottenere la fiducia parlamentare non sia – come da quasi tutti rilevato – una contraddizione (perché il presidente del Consiglio, se eletto direttamente, ha bisogno della fiducia del Parlamento?) ma anzi un’utilissima verifica dell’effettivo sostegno parlamentare alla squadra di governo e al suo programma, come resto avviene in molte Regioni dove, com’è noto, il Presidente è giustappunto eletto direttamente. Al riguardo, due osservazioni.

In punta di diritto, i presidenti di Regione, dopo aver nominato gli assessori della Giunta regionale, si presentano dinanzi al Consiglio regionale non per ottenerne la fiducia ma semplicemente per esporre le linee programmatiche del proprio esecutivo. Su di esse il voto iniziale del Consiglio regionale ha valore solo politico, non di fiducia.

L’ha affermato la Corte costituzionale non in una ma in ben tre sentenze dichiarando illegittima la fiducia iniziale prevista negli Statuti di Toscana (372/2004), Emilia Romagna (379/2004) e Abruzzo (12/2006): se il Presidente è eletto dagli elettori, va escluso in radice il voto di fiducia iniziale del Consiglio.

Esso, piuttosto, può esprimere la sua consonanza politica al programma esposto o, in caso negativo, votare piuttosto la sfiducia al Presidente eletto, determinandone le dimissioni ma anche il contestuale proprio scioglimento. Insomma, il Consiglio regionale non deve dare la fiducia (che è presunta) al Presidente eletto ma, al contrario, può sfiduciarlo, innescando così uno scontro tra i due organi direttamente eletti che spetterà agli elettori – per questo chiamati alle urne – dirimere.

Ma è in punta di fatto che il voto di fiducia iniziale si rivela inutile, ed anzi pernicioso, per cui alla fin dei conti il presidente del Consiglio eletto da esso avrebbe tutto da perdere e nulla da guadagnare. Immaginiamoci lo scenario. Il presidente del Consiglio eletto forma la squadra di governo, la presenta al presidente della Repubblica che nomina, su sua proposta, i ministri.

A questo punto si possono aprire due scenari. O va tutto liscio e il governo ottiene la fiducia del Parlamento, oppure insorgono contrasti in seno alle forze politiche che hanno sostenuto la candidatura del Presidente eletto, presumibilmente a seguito di scelte non condivise all’interno della compagine di governo, in misura tale addirittura da portare alla bocciatura della mozione di fiducia con l’obiettivo di costringere il presidente del Consiglio ad apportare gli opportuni correttivi.

Già perché, se la mozione di fiducia iniziale non viene approvata, il progetto di riforma costituzionale del Governo prevede che il presidente della Repubblica debba rinnovare l’incarico al Presidente eletto di formare il governo e solo qualora questi non ottenga, per la seconda volta, la fiducia delle Camere, debba sciogliere le Camere.

A me pare evidente che, grazie a tale disciplina, si potrebbe innescare una gravissima tensione politico-istituzionale tra legittimazione elettorale e legittimazione parlamentare, tra volontà degli elettori e volontà delle camere. Da un lato, il Presidente direttamente eletto che, forte della sua legittimazione elettorale, rivendicherebbe a buon titolo il diritto a scegliere i ministri che ritiene idonei a realizzare il programma di governo scelto dagli elettori, proponendoli per la nomina al presidente della Repubblica.

Dall’altro le Camere, e in esse i partiti politici della maggioranza che hanno sostenuto il Presidente eletto, i quali di contro potrebbero cominciare a brigare per condizionarne le scelte, confidando proprio sulla possibilità di ripetere per una seconda volta il voto di fiducia. In tal modo innanzi tutto si finirebbe per svilire il voto di fiducia, privandolo della sua intrinseca solennità politica ed istituzionale.

E la fiducia – come diceva un vecchio slogan pubblicitario – è una cosa seria. È vero che in altri Stati (Spagna, Germania) è prevista una doppia votazione fiduciaria, ma solo perché i quorum richiesti sono diversi: maggioranza assoluta nella prima; semplice o relativa nella seconda.

Ma soprattutto verrebbe subito corrosa l’autorità politica della figura del presidente del Consiglio eletto che a questo punto, pur di sopravvivere a questa forma di accanimento terapeutico nei suoi confronti, sarebbe costretto a modificare quanto meno la compagine di Governo (infatti il Presidente gli rinnova l’incarico “per formare il Governo”) al fine di ottenere la fiducia delle Camere, rimediando così subito una figura barbina e una cocente umiliazione dinanzi ai suoi elettori che finirebbe per incidere subito sulla sua autorità politica ed istituzionale.

Si potrebbe obiettare che il presidente del Consiglio potrebbe resistere a tali pressioni perché, in caso di seconda bocciatura, il presidente della Repubblica è obbligato a sciogliere le Camere; prospettiva che potrebbe stavolta indurre a più miti consigli la forza e le forze politiche della maggioranza recalcitranti. Non è così.

Basterebbe infatti votare la fiducia iniziale al presidente del Consiglio e alla prima occasione utile (subito dopo?) sfiduciarlo per sostituirlo con un altro presidente del Consiglio che, nonostante non eletto direttamente, sarebbe molto più saldo del predecessore perché potrebbe essere sfiduciato solo a prezzo però dell’interruzione anticipata della legislatura.

Fantapolitica? Forse. Ma chi conosce la politica italiana se che è stata spesso contrassegnata da mille impreviste e diaboliche astuzie, per cui, come il passato dimostra – tra patti della staffetta (Craxi – De Mita) non rispettati e mozioni di sfiducia votate contro propri governi per andare alle elezioni (Fanfani) – ciò che sembra oggi inverosimile, un domani potrebbe non esserlo. È la legge di Murphy.

15 Dicembre 2023

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