La festa di Fdi
Il direttore Rai Corsini e la tribalizzazione della politica: “Noi di FdI”
Per Corsini il “noi” significa appartenenza, davanti al pubblico di Atreju. Dice “noi di FdI”, la nostra tribù, quella di Atreju. Gli altri sono fuori. E’ un noi tribale, detto da chi dovrebbe garantire tutti, in un ruolo di servizio pubblico
Editoriali - di Mario Marazziti
Crisi della politica, ma non del potere. Il dibattito è pieno di analisi sull’astensionismo, sull’offerta politica. E la cronaca continua ad offrire episodi imbarazzanti. Solo l’ultimo esempio viene dal direttore RAI Corsini, diventato famoso andando a un dibattito della festa di FdI, Atreju.
Fa parte di un abbassamento della qualità e di una crisi antropologica della politica – di cui si può far parte anche da giornalisti. È una crisi che viene da lontano.
Da tempo sono venuti meno i luoghi di selezione delle classi dirigenti (i partiti come comunità di idee, corpi intermedi, indebolite e si sono frammentate le grandi agenzie di creazione di senso, sindacati, parrocchie, scuole di pensiero), mentre si è affermato un sistema difettoso dell’alternanza che riduce gli spazi di democrazia in nome dello “spoil system”, indipendentemente dalle competenze.
Nell’ultimo decennio il vento dell’antipolitica ha liquidato con l’acqua sporca molti bambini: ha teorizzato l’incompetenza, e l’assenza di competenze, come via per il “nuovo”, e vaccino al conflitto di interessi; ha buttato via il finanziamento pubblico dei partiti – anziché abbondare nei nelle verifiche – favorendo tycoon e proprietari di macchine mediatiche e digitali, diminuendo l’indipendenza dei singoli, in debito perenne con qualcuno.
La crisi antropologica della politica ha attraversato anche 5Stelle, convinti di essere puri e impermeabili alla corruzione, inciampati sugli scontrini e sulle rendicontazioni e da sempre senza gli anticorpi verso la pletora di parenti e amici con cui sono stati riempiti luoghi di potere e poteri dello stato. E tanti signori Nessuno diventati opinionisti da un giorno all’altro, con macchine da migliaia di followers, poi svaniti come i followers. Ma intanto il danno era fatto.
È un processo che non è concluso. La maggioranza è così poco coesa, ma intimamente sodale, unita dalla necessità di durare, che non può permettersi neppure le dimissioni di questo o quell’altro esponente gaffeur o imbarazzante. La carenza di classe dirigente è tale che poi non è detto che arrivi qualcuno di meglio, per una debolezza strutturale, soprattutto delle destre italiane, a produrre una classe dirigente qualificata, al di fuori dei soliti noti.
La crisi antropologica della politica nella fase del governo di destra-centro significa riempire di personalità senza curriculum sottogoverno, stato e posizioni di rilievo, mentre si fa pubblicamente il discorso sul merito. Ma che importa? Con la comunicazione gonfiata e controllata, con messaggi targettizzati, si può dire davvero il contrario di quello che si fa apparendo coerenti, perché solo pochi possono tenere il conto delle giravolte.
È anche in corso una tribalizzazione della politica e della comunicazione che coinvolge anche gran parte dei mezzi di informazione mainstream. Si dice sempre: la RAI è lo specchio del Paese. Ho sempre pensato che la RAI preceda il Paese. Storicamente, ai livelli più alti, questo si è espresso soprattutto nelle testate giornalistiche, per un istinto a capire dove va il potere ancor prima dei cambiamenti elettorali, in vista dei “nuovi giri”.
Al di là di poche eccezioni questo è palpabile anche nell’offerta generale, che tocca anche un pubblico abitudinario, in fuga. Una crisi così evidente e in così poco tempo di trasmissioni di prima e seconda serata non c’era mai stata. Dovrebbe interessare chi ambisce a governare a lungo: perché i cocci alla fine diventano sempre problemi propri.
Vale per l’emittente pubblica, ma anche nel paese: senza immigrati l’Italia è destinata a essere ufficialmente Italietta; le aree interne vuote e svuotate sono insostenibili anche per i sindaci nella maggioranza di governo; gli imprenditori non possono competere senza le professionalità che gli servono.
Alla fine il “prima gli Italiani” si trasforma in dissipazione del capitale umano, delle risorse, del territorio degli italiani. Non si possono governare regioni del sud dove per ambire a una chirurgia sicura bisogna emigrare al nord e arricchire le sanità già più ricche.
C’è il titolo di un bel libro di Vincenzo Paglia, vescovo colto e intelligente, che è particolarmente felice nel descriverci: “Il crollo del noi”: “Smettiamo di chiederci: invece: chi sono io? E chiediamoci per chi sono io?”. In un mondo in cui tutto si frammenta, anche le maggioranze, la chiave proposta è quella di ricostruire il senso del “noi”, cioè del bene comune.
Ma, specchio dei tempi, il responsabile degli approfondimenti (si, davvero, “approfondimenti”) Rai, un giornalista che un curriculum lo avrebbe, che è stato vaticanista e vicedirettore di testate giornalistiche quando anche quando non governava la destra, lui che è presidente di un’associazione, “Lettera 22”, che è solo omonima dell’associazione Lettera 22 di giornalisti indipendenti che da 30 anni offre reportage di prima mano e analisi soprattutto su temi di politica estera, la pensa in altro modo.
Per lui il “noi” significa appartenenza, davanti al pubblico di Atreju. Conosce il peso delle parole: dice “noi di FdI”, la nostra tribù, quella di Atreju. Gli altri sono fuori. E’ un noi tribale, detto da chi dovrebbe garantire tutti, in un ruolo di servizio pubblico. Un concetto reiterato, più volte, nel suo intervento. Non per incoscienza, ma perché si trovava a casa di chi comanda e rimarcava che quella era anche la sua casa e la sua tribù. Sì, c’è una crisi antropologica. In un’Italia tribale il bene comune e la politica svaniscono, e questo fa male tutti.