Parla il capogruppo dem
Intervista ad Arturo Scotto: “Senza conflitto non c’è democrazia”
«La "delega" al governo sul salario minimo? Uno scandalo. Nel nostro paese si lavora di più e peggio. È ora di aprire un dibattito sulla riduzione dell'orario di lavoro»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
La lotta di classe ha ancora diritto di cittadinanza a sinistra, nel Pd? La parola ad Arturo Scotto, deputato, capogruppo Dem in Commissione Lavoro della Camera, membro della Direzione nazionale del Partito democratico.
“Scontro sul salario: la lotta di classe è il motore della politica”. Questo è il titolo che l’Unità ha dato a un impegnato articolo di Paolo Franchi, che ha aperto un dibattito molto ricco e plurale. Lei come la vede?
Che non esiste una società armonica. E’ una pretesa autoritaria immaginare che tutti gli interessi in campo siano uguali e che vadano rappresentati allo stesso modo. Questa barzelletta che ha preso piede dagli anni 80 in poi ha prodotto un solo effetto: una crescita delle diseguaglianze senza precedenti, la crisi di un modello sociale inclusivo e una perdita di fascino delle democrazie in quanto tali. Soprattutto in occidente. Continuo a pensare che sia il conflitto a produrre le grandi conquiste civili e sociali. Ce lo insegna in questa fase ad esempio lo straordinario movimento delle donne.
Franchi annota che la vicenda del salario minimo sembra avere riportato nel dibattito la nozione di sfruttati e sfruttatori. Il governo sta con gli sfruttatori. Ma il Pd?
La risposta è semplice. I 9 euro sono uno spartiacque tra chi dice che si può lavorare a qualsiasi costo e chi invece pensa che il lavoro vada pagato. Una cosa elementare. La destra ha scelto la prima strada. E ha scelto un blocco sociale preciso: quello di un capitalismo parassitario che scommette su bassi salari, tutele scarse e nessuna innovazione. La destra sta dunque con gli sfruttatori, come ha detto Elly Schlein in aula qualche giorno fa. Basta guardare i dati OCSE: dal 91 in poi i salari in Italia sono cresciuti dell’1 per cento mentre nei paesi europei sono cresciuti del 32 in media. Nel frattempo i profitti sono esplosi tra il 40 e il 60 per cento. Significa che qualcuno ci ha perso e qualcun altro ha vinto e vinto pure bene. Ma questa tendenza è una trappola perfetta. Perché non regge nemmeno per chi si è arricchito in questi anni un livello così basso di retribuzioni. Che significa meno crescita, meno consumi, meno legami sociali. E hanno avuto anche la faccia tosta di votare no al salario minimo! Prima o poi bisognerà trovare il modo di raccontare il percorso parlamentare che ha condotto a questo colpo di spugna sul salario minimo. La destra non è riuscita dall’inizio di questa partita ad avere una strategia che non fosse l’affossamento. Eppure anche in mezzo a loro in passato aveva tenuto banco questo dibattito, persino con disegni di legge presentati nelle scorse legislature. Salvini addirittura lo inserì nel programma elettorale. La scelta invece è stata una sola: per coprire eventuali divisioni provare a non parlarne, tenere basso l’argomento anche perché avrebbe sporcato la narrazione del Governo secondo cui in Italia va tutto bene sul terreno economico e sociale.
E qui s’inserisce la “mossa della delega”.
La delega è uno scandalo. Innanzitutto per chi l’ha promossa. Una legge di iniziativa parlamentare delle opposizioni che viene trasformata in un cadeau al Governo. Dove scompare la parola salario minimo, non viene prevista nessuna soglia, si introducono le gabbie salariali nella contrattazione di secondo livello, si eliminano dall’orizzonte i contratti comparativamente più rappresentativi per settore spalancando le porte ai contratti pirata, si interviene persino sulla partecipazione agli utili con un comma la cui puzza di incostituzionalità si sente almeno fino al ponte sullo stretto di Messina che Salvini non realizzerà mai. Mi domando questo: ci sono colleghi del centrodestra che fanno lavoro parlamentare come tanti di noi, che hanno radicamento sul territorio, che sono costretti volente o nolente ad ascoltare le istanze sociali che vengono dal basso. Non si sono stancati di schiacciare bottoni, di non poter presentare nemmeno un emendamento alla manovra di bilancio, di dover convertire decreti su decreti? Stiamo assistendo a un fenomeno singolare parafrasando lo splendido verso di Rilke: il premierato forte sta entrando in noi prima che accada.
Lei che ha vissuto in prima linea la battaglia parlamentare, è la persona più indicata per ripercorrerne la storia.
Siamo entrati in questa discussione a novembre del 2022 con le mozioni in Parlamento, in Commissione abbiamo avuto 65 audizioni da febbraio a luglio e poi altre nel mese di ottobre, una sospensione e un rinvio in aula, compreso un report del CNEL. Alla fine dalla destra non è mai arrivato un si o un no netto, compreso quando la Meloni ha deciso di convocare le opposizioni. Significa che questa vicenda li ha mandati in tilt con un pezzo del loro elettorato. E che anche il coordinamento delle opposizioni ha funzionato. Speriamo che non sia solo un episodio, perché una rondine purtroppo non fa primavera.
Partendo da questa esperienza, costruire sull’irrisolta “questione sociale” l’unità delle opposizioni è una missione praticabile?
Servirebbe inaugurare un “metodo salario minimo” perché quando le opposizioni riescono a mettersi insieme sulle cose che contano per la vita delle persone la destra arranca e insegue. Si apre insomma una breccia nella sua narrazione tossica tutta fondata sul vittimismo, sulla negazione della questione sociale e sul populismo penale nei confronti dei più deboli. Questo significa che c’è bisogno di un surplus di generosità politica, non di spaccare sempre il capello in quattro e sottolineare ogni volta le differenze. Poi puoi anche perdere come è accaduto in Parlamento, ma nel paese hai portato parole d’ordine potenzialmente maggioritarie. Che lasciano traccia.
I critici, anche nella sinistra “Ztl” , dicono che i salari sono bassi perché la produttività è bassa.
Vero ma sulla produttività pesano almeno due fattori: la scarsa predisposizione delle imprese a scommettere sulla innovazione di processo e di prodotto nonché sull’organizzazione del lavoro a partire dagli orari e leggi che hanno alimentato in maniera indecorosa precarietà soprattutto tra giovani e donne. D’altra parte se andiamo a vedere la media Ue delle ore lavorate in Italia siamo su numeri – anche se in calo – nettamente superiori rispetto a Germania e Francia. In Italia sono 1669 le ore lavorate, in Germania 1349, in a Francia 1490. Insomma nel nostro paese si lavora di più e si lavora peggio. Forse sarebbe il caso di aprire finalmente un dibattito sulla riduzione dell’orario di lavoro?
Qualcuno ha iniziato a parlarne…
Ci sono già settori dove si sta intervenendo con una sperimentazione nel legno, nell’arredo, nel bancario, nella metalmeccanica. Gli ultimi accordi di Lamborghini e Luxottica, per quanto diversi, ci dicono che c’è una tendenza a riorganizzare e ridurre l’orario di lavoro a parità di salario. Serve però una spinta della politica. Abbiamo presentato un pdl per allargare il Fondo nuove Competenze – che interviene sulla Formazione – anche alla riduzione dell’orario di lavoro. Prevediamo un investimento di 100 milioni per il primo anno e a seguire 200 per sostenere la contrattazione collettiva che va in questa direzione. E’ un passo in avanti, spero che il Governo scelga di stare sul registro che hanno avuto governi diversissimi come quello spagnolo che ha sperimentato la riduzione dell’orario per duecento aziende tra i 3000 e i 6000 dipendenti o quello britannico dove su 61 grandi aziende il 60 per cento ha continuato sulla strada della sperimentazione e il resto l’ha resa permanente. Non c’è mai stata una rivoluzione industriale che non sia stata accompagnata da una riduzione dell’orario di lavoro. La storia ci dice questo. Ma anche la società domanda un rapporto diverso tra vita e lavoro, tra tempo libero e fatica, tra spazio per interessi non monetizzabili e ritmi di produzione. L’alienazione esiste ancora, nonostante ci abbiano abituato a pensare che la velocità debba essere l’unico parametro sociale che ci fa sentire vivi.
C’è chi griderebbe al massimalista…
Faccia pure. Ma qui sta il punto di scontro massimo tra destra e sinistra. La nostra lotta per cambiare il modello di sviluppo in senso più sostenibile deve andare di pari passo con una trasformazione radicale del super-mercato del lavoro che si è affermato in Italia. Bisogna chiudere con la stagione dei voucher, della liberalizzazione dei contratti a termine, della somministrazione selvaggia, dei contratti intermittenti (più 6,1 secondo l’Istat ) che spingono donne e giovani al part-time involontario con cifre non degne di un paese europeo. Il salario minimo è un punto di vista riformista nel senso più autentico del termine: perché inverte una tendenza trentennale, restituisce parola, rappresentanza e dignità a chi ha visto crollare il proprio peso sociale e politico. Nel 2022, in generale, le medie e grandi aziende hanno aumentato le assunzioni dell’1,7%. Una forza lavoro che oggi con i suoi stipendi pesa solo per l’8,4% sul giro d’affari complessivo, mentre nel 1980 pesava più del doppio, il 18,4%. Tra progressi tecnologici, automazione e altre dinamiche ancora, oggi per una grande azienda il peso degli stipendi è decisamente più basso che in passato. E dunque il potere d’acquisto. Si può dire che c’è qualcosa che non va senza passare per una Cassandra? Che la svalorizzazione del lavoro è il modo di destrutturare la democrazia?