L'egemonia della destra
La destra alla disperata ricerca di un’influenza culturale mai avuta
In fondo la Destra storica ha incarnato una tradizione di rigore e austerità morale. Non poteva funzionare da modello? Era davvero ineluttabile, cari fratelli d’Italia ansiosamente in cerca d’egemonia, affrettarsi a colonizzare spavaldamente ogni spazio pubblico della cultura?
Politica - di Filippo La Porta
Con la mostra romana su Tolkien e la prossima edizione di Atreju si torna a parlare di cultura di destra, e della sua riscossa! Forse a destra sono rimasti oggi gli ultimi, involontari “gramsciani”, ossessionati dall’egemonia (interpretata nell’accezione più angustamente militante).
C’è a destra una voglia compulsiva di appropriazione di autori e filoni culturali, a partire dalla goffa rivendicazione di Dante come autore di destra da parte del ministro, celebre per aver giudicato la cinquina dello Strega senza averla letta (forse riecheggiando la beffarda replica di un grande critico a proposito dei romanzi di cui gli chiedevano un giudizio: “Non l’ho letto, e neanche mai recensito”).
Una voglia che tradisce insicurezza, smarrimento, e che oggi riguarda tutto lo schieramento politico: riuscite a immaginare una biblioteca dietro i partiti attuali? Bisognerebbe convincersi che un grande scrittore non ha una coloritura politica precisa. La cultura è educazione alla complessità.
Io alla politica chiedo di semplificarmi la vita, alla cultura di complicarmela. Va bene, i singoli scrittori possono essere, soggettivamente, più a destra o più a sinistra, ma la loro opera non si fa annettere e deborda in ogni direzione.
Prendiamo i grandi scrittori che aderirono a quella parte: Knut Hamsun, Céline, Bernanos, Ezra Pound (quello più sopravvalutato), Mishima, persino Pirandello, che prese la tessera dopo il delitto Matteotti. Céline, anarchico e intrattabile, si sottrae a qualsiasi uso strumentale (elogiò la diserzione e la vigliaccheria!): impensabile una “CasaCéline”.
Ora, il vero problema della destra attuale è la sua incapacità di coltivare la propria stessa tradizione. In un comizio degli anni 70 Almirante gridò dal palco “Ci hanno scippato pure Nietzsche!”. Appunto. Oggi le edizioni critiche degli autori prima ricordati, a cui potremmo aggiungere, che so, Leon Bloy, Carl Schmitt o il barone Julius Evola, sono curate perlopiù da studiosi di sinistra. Vogliono l’egemonia? Beh, che studino, insomma che se la meritino.
Ora, una cultura non coincide solo con la cultura alta, con i vertici letterari e filosofici, è antropologicamente fatta di mitologie di massa, gusti, icone, credenze, mode, mentalità, etc. Fascisti immaginari di Luciano Lanna e Filippo Rossi (Vallecchi 2003) è una introduzione fondamentale all’immaginario culturale neofascista, declinato in senso pop. Decine e decine di voci accuratissime dove scopriamo tra l’altro convergenze o almeno tangenze sorprendenti tra destra e sinistra.
Lasciamo pure perdere Goldrake, allora difeso nel quindicinale di Rauti, ma Tex Willer e Corto Maltese, Battiato e De Andrè, Bukowski e John Fante, Alce Nero e Clint Eastwood, Che Guevara e Padre Pio, il jazz e Houellebecq appartengono sorprendentemente a un orizzonte comune.
E così Sergio Leone e Peckinpah: negli anni ruggenti Giù la testa e Il Mucchio selvaggio erano i cult-movies di Potere Operaio. I due autori individuano nel situazionismo, nel gusto della provocazione e dello sberleffo, una possibile matrice comune degli opposti estremismi nelle ragioni della rivolta.
In parte vero, anche se la destra estrema di quegli anni non ha mai prodotto nulla sul piano culturale, non ha scritto libri, composto canzoni, etc. Se poi a proposito del colore destrorso del Diario Vitt non ci sono dubbi, la voce forse più divertente è su Willy Coyote eroe popolare della destra: sì uno sfigato, ma “uno sconfitto che non si stanca mai di combattere la propria battaglia personale”. Un libro stimolante, che ci fa scoprire realtà inesplorate e che dissolve molti luoghi comuni.
Ma anche un libro spesso disorientante. Forse alcune discriminanti, alcuni paletti occorre pur metterli. Se il fascismo giovanile di un Franco Cardini si risolveva in “dedizione ai poveri e agli oppressi”, ciò avveniva però lungo una dorsale eroico-vitalistica.
Insomma la destra, in tutte le sue innumerevoli versioni (aristocratica, sociale, esoterica, liberale, nichilista…), privilegia comunque la forza, la gerarchia (quella stessa che si ritrova nell’ordine naturale), la virilità, la durezza della competizione, mentre la sinistra proviene dall’idea cristiana di uguaglianza creaturale, di destino condiviso e fraternità.
Quello che hanno in comune gli esseri umani è anzitutto la finitudine, la debolezza, la loro originaria infermità, come sapeva tra l’altro il Leopardi della Ginestra – , un aspetto che invece la destra tende da sempre a rimuovere con fastidio, mettendosi secondo me dentro una dimensione del tutto irreale, popolata di fantasmi.
Ultima considerazione. La destra attuale, dopo una sfibrante, spesso umiliante anticamera di oltre mezzo secolo, è approdata finalmente al salotto buono. Comprensibile il vittimismo paranoico, la sua febbre revanscista (ricordiamoci Polonio a Laerte, nell’Amleto: “Afferra il tuo momento!”).
Tanto più che la sinistra, quando ha potuto, ha cercato in tutti i modi di lottizzare, occupare spazi, spartire fette di potere, etc., entro una logica “militaresca” della battaglia culturale. Ma basta questo per riprodurne – simmetricamente e in modi spesso più “primitivi” – il comportamento? In fondo la Destra storica, benché venuta molto prima del fascismo, ha incarnato una tradizione di rigore e austerità morale.
Non poteva funzionare da modello? Era davvero ineluttabile, cari fratelli d’Italia ansiosamente in cerca d’egemonia, affrettarsi a distribuire cariche e a colonizzare spavaldamente ogni spazio pubblico della cultura? Forse sì, però intanto badate a non farvi scippare pure Tolkien, che peraltro disprezzava la propaganda nazista, e mettetevi a leggere per davvero i vostri autori!