L'attacco ai poteri

Il gelo di Meloni su La Russa: fa danni alla riforma del premierato

“Vogliono neutralizzare il Quirinale”, è l’affondo dem. Ma dietro l’uscita del presidente del Senato c’è la volontà di far saltare le modifiche imposte dalla Lega

Politica - di David Romoli - 20 Dicembre 2023

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Giorgia Meloni e Ignazio La Russa
Giorgia Meloni e Ignazio La Russa

Il “chiarimento” di Ignazio La Russa non è bastato e del resto non era una retromarcia ma una conferma: la riforma costituzionale, per il presidente del Senato, non lede i poteri formali del capo dello Stato ma decurta quelli assegnatigli invece, nel corso del tempo, dalla “Costituzione materiale”.

I quali, sempre stando al secondo cittadino dello Stato, eccedono di molto i limiti fissati in origine dalla Carta. Per l’opposizione è un invito a nozze. Il fuoco prosegue da due giorni ad alzo zero: “Ha gettato la maschera. Vogliono indebolire il presidente e incoronare un monarca”, esagera il M5s. “L’obiettivo è mettere in discussione il capo dello Stato”, tuonano dal Pd, in linea col già foltissimo coro, Orlando e Parrini aggiungendo, bontà loro, ai bersagli della riforma anche “il parlamentarismo”.

Si può dare per certo che a Meloni l’ultima del presidente del Senato non sia piaciuta affatto. Non perché si sia trattato davvero di un attacco a Sergio Mattarella, quella è la versione molto tirata per i capelli dell’opposizione che il leader dei Verdi Bonelli, incontinente, porta a livelli surreali reclamando le dimissioni di La Russa.

Il guaio, per Giorgia, è che il presidente del Senato ha detto più o meno la verità, ammettendo che nel concreto la sua riforma limita il ruolo che di fatto esercita il presidente oggi ma soprattutto accettando il terreno di scontro più favorevole al partito del No, insomma all’opposizione.

Se Pd, 5S e Avs battono tanto sull’attentato ai poteri del presidente e citano appena di sfuggita quello alla centralità del Parlamento il motivo è evidente. Gli italiani sono affezionati sia all’esistenza di un garante al di sopra delle parti, anche se non tutti i presidenti lo sono stati, e ancora di più a una figura comunque rassicurante e, almeno dalla presidenza Pertini in poi, sempre e comunque molto amata.

Sul piano della propaganda è il fianco esposto della riforma, l’argomento di forte presa con cui l’opposizione spera non senza motivo di ribaltare la retorica della premier, quel “Volete scegliere voi o volete che lo facciano i partiti” che, senza il santo presidente di mezzo, sbaraglierebbe senza sforzo la controparte.

Se spostare il confronto sul fronte del Colle e del suo ruolo è interesse del partito del No, è anche, per gli stessi motivi, quanto di più sgradito a quello del Sì ed è difficile credere che un politico di lunghissimo corso come La Russa non se ne rendesse conto. È più probabile che volesse dare una botta a una riforma che in tutta evidenza non apprezza.

L’elemento che al secondo cittadino d’Italia non va giù, e che in effetti costituisce il vero elemento confuso e confusionario della riforma, è quella clausola che permette di sostituire sia pur per una sola volta il premier eletto.

Un pasticcio che rende l’eventuale secondo premier, non scelto da nessuno, molto più forte sia del direttamente eletto che del capo dello Stato, per non parlare del Parlamento. Quella norma pasticciata è stata inserita non solo come mediazione con Salvini ma soprattutto per parare in anticipo il colpo più temuto, l’accusa cioè di voler spodestare il presidente.

È proprio in virtù di quella medesima logica che la premier non intende per ora sfruttare la possibilità offerta dagli emendamenti per tornare alla suo opzione originaria: la fine della legislatura automatica in caso di sfiducia, morte o rinuncia del premier eletto. Non è affatto escluso che ammettendo l’impatto della riforma sul Colle, La Russa mirasse a rendere inutile il sotterfugio scelto dal governo spingendolo così a rivedere la riforma, come del resto esplicitamente si è augurato.

Il problema è che la campagna elettorale che si profila, tutta centrata sui poteri del capo dello Stato, relega nell’ombra il vero obiettivo della riforma che non è affatto il Colle ma il Parlamento. All’origine del collasso istituzionale italiano, cioè del ruolo di volta in volta o contemporaneamente esorbitante dell’Esecutivo, del Presidente e della Magistratura c’è il progressivo svuotamento di poteri del Parlamento.

Ieri il ministro Crosetto, in aula, ha ricordato con parole solenni che il compito di varare le leggi, nella nostra Repubblica e secondo la nostra Costituzione, spetta al Parlamento. Sacrosanto ma falso anche senza contare il particolare per cui proprio il governo di cui Crosetto è parte eminente si prepara a cancellare di fatto a seppellire le ultime vestigia di centralità parlamentare.

Di leggi rilevanti il Parlamento già ne vara sì e no una per legislatura e anche l’intervento sulle leggi decise dall’Esecutivo è ridotto all’osso dalla tagliola decretazione d’urgenza/voto di fiducia, alla quale si è aggiunto negli ultimi anni una sorta di monocameralismo alternato. Una sola camera, a turno, discute davvero, fiducia permettendo, le leggi. L’altra ratifica.

Dunque una discussione e poi una campagna elettorale sulla riforma degli assetti istituzionali dovrebbe vertere essenzialmente proprio sulle funzioni che si vogliono restituire o assegnare ex novo al Parlamento. Parlare del Colle è parlar d’altro e sviare, da una parte e dall’altra, l’attenzione. Però solo del Colle si parla e si parlerà sino al giorno del referendum.

20 Dicembre 2023

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