La leadership del Pd
La fiacca opposizione a Giorgia Meloni che svela la crisi di identità del Pd
Se si vuole infilzare la premier, che in romanesco graffia i nemici e in inglese fugge dalle cose di questo mondo, non occorrono stanche formule ma una proposta di Paese mobilitante e coraggiosa
Editoriali - di Michele Prospero
Dopo la telepromozione registrata a reti unificate a Castel Sant’Angelo, l’unica notizia rassicurante, almeno per i garantisti, è che Elon Musk è ancora a piede libero.
L’invito di Giorgia Meloni non era dunque una trappola per mettere le mani addosso all’autore di un “crimine universale” come l’utero in affitto. E però, in risposta alla (non più) sovranista del Torrino, il soporifero incontro dei reduci del progetto europeista negli studi sulla via Tiburtina di sicuro non ha posto argini visibili e resistenti.
Se davvero intende proporsi come la federatrice della coalizione antagonista della Meloni, la quale contro influencer e scrittori dal palco azzanna come una inemendabile “underdog”, Elly Schlein dovrebbe mettere utilmente a frutto alcune riflessioni di Machiavelli.
La aiuterebbero a usare delle formule efficaci e a non apparire contagiata dai cortocircuiti espressivi che di solito vengono rimproverati ai radical chic. Il segretario fiorentino distingue tra le fasi storiche in cui l’ordine costituzionale tiene e i cicli in cui invece regna la “corruzione”, cioè irrompe la crisi degli istituti, delle culture, dei soggetti.
Ebbene, quando i conflitti sociali e le dispute per il potere seguono un percorso regolare, il linguaggio politico può assumere il più raffinato tono retorico. Se la vita pubblica funziona secondo le dinamiche ordinarie, e le élite condividono le regole e i valori fondanti della repubblica, non ci sono ostacoli ad accettare che la contesa si svolga secondo il ricorso a buoni argomenti.
La costruzione delle frasi, in una “città che ancora viva politicamente”, può puntare anche alla complessità dell’analisi senza incontrare gravi rischi di incomprensione. In tali frangenti, è possibile perciò “difendere alcuna opinione con le ragioni”.
Se il corpo della repubblica non sviluppa entro di sé morbi aggressivi, i quali finiscono per alterare equilibri e confondere le percezioni collettive, il comportamento del pubblico rispetto alle parole scandite dai capi politici non presenta salti irrazionali.
“Quanto al giudicare le cose, si vede radissime volte, quando il popolo ode duo concionanti che tendino in diverse parti, quando ei sono di equale virtù, che non pigli la opinione migliore, e che non sia capace di quella verità che egli ode” (Discorsi, I, LVIII).
Tra “duo concionanti”, che disputano su un obiettivo politico formulando proposte alternative, il popolo sa ben optare per “la opinione migliore”. Infatti Machiavelli, scagliandosi “contro alla commune opinione” che scorge nella moltitudine solo il fluire di istinti “vari, mutabili ed ingrati”, ribatte che nelle scelte essenziali “un popolo è più prudente, più stabile e di migliore giudizio che un principe”.
Anche i pronunciamenti elettorali dei cittadini non sconfessano tale asserzione: entro una repubblica ben strutturata, “vedesi ancora nelle sue elezioni ai magistrati fare di lunga migliore elezione che un principe, né mai si persuaderà a un popolo che sia bene tirare alle degnità uno uomo infame e di corrotti costumi” (ivi).
Insomma, in situazioni storiche ottimali, la ragione politica domina nel confronto e le credenze dei molti non rispondono a degli impulsi imprevedibili. In circostanze come quelle attuali, invece, con i sondaggi che incoronano alla presidenza Trump e le sue fantasie di un’America “pura di sangue”, e danno Meloni vicina al 30%, divampa quella che Machiavelli chiama la “corruzione” ovvero la crisi.
Detto con categorie odierne, si tratta del momento non del popolo (“il popolo romano in tante centinaia d’anni, in tante elezioni di Consoli e di Tribuni, non fece quattro elezioni di che quello si avesse a pentire”), ma del populismo, che evidenzia la comparsa di una massa “inordinata” (“non ordinata, non stabile, non prudente”).
Quando i “concionanti” devono scontrarsi tra loro nel tempo della crisi-corruzione, mutano tutte le coordinate della retorica politica. In simili occasioni, allorché pare incombente l’ombra di Cesare (ma, in presenza solo di piccole maschere, è meglio affermare con Gramsci che si tratta di un “cesarismo senza Cesare”), è arduo trovare rimedi.
Le probabilità di caduta del regime sono così elevate che anche Machiavelli dispera sulla possibilità immediata di rinvenire degli antidoti. Si manifestano allora quegli scenari civici capovolti, e che per la repubblica appaiono densi di “infiniti pericoli e danni”, in cui “il popolo, molte volte ingannato da una falsa immagine di bene, disidera la rovina sua” (Disc. LIII).
I capi populisti spacciano con estrema facilità la loro “falsa immagine di bene” (magari agitando una motosega), anche perché la loro seduzione è favorita dalle macerie accumulate nello schieramento contrapposto. Se il campo progressista è in via di smobilitazione, il popolo non reagisce positivamente agli appelli più responsabili, dal momento che non è in condizioni di farlo “se non gli è fatto capace come quello sia male e quale sia il bene, da alcuno in chi esso abbia fede”.
Il capo che coltiva un piano sleale rispetto all’ordine costituito e il popolo “sciolto” entrano in un dialogo diretto del tutto mistificante e senza più mediazioni, reso più agevole dal fatto che nel fronte soccombente il vecchio quadro politico abbia perso ogni credito.
“E quando la sorte fa che il popolo non abbi fede in alcuno, come qualche volta occorre, essendo stato ingannato per lo addietro o dalle cose o dagli uomini, si viene alla rovina di necessità”. La sfiducia, la perdita di credibilità delle tradizionali classi dirigenti spianano così la strada al piccolo o grande avventuriero.
È necessario affrontare a viso aperto Giorgia Meloni, che nel centro di Roma vende a squarciagola la sua “falsa idea di bene”, e adopera l’“obbrobrio delle parole” contro dei privati cittadini perché è sprovvista di “grandi prudenze” e quindi incapace di “astenersi o dal minacciare o dallo ingiuriare alcuno con le parole”.
Elly Schlein non può rifugiarsi in periferia tra le braccia di tutti i leader che hanno smarrito la fiducia popolare e a settembre hanno consegnato Palazzo Chigi ai postfascisti democratici. Non è perché articola proposizioni difficilmente decodificabili che la sua leadership stenta, ma perché la sua direzione manca di idee politiche che mobilitano e non è accompagnata dalle iniziative che rendono persuasive le semplici prese di posizione.
Sulla pace, ad esempio, il Pd non pronuncia delle sillabe chiare (su una faccenda così identitaria “era bene da detestare quella ambiguità e tardità di pigliare il partito”), anzi Schlein ricorre all’astuzia di dire in sostanza che la guerra deve continuare, coprendo però la sua opzione bellica con il diversivo di una critica al sovranismo di Orban che nega i fondi a Kiev.
Alcune metafore sullo stop alle armi le si fermano in gola (non calcola “il danno che si tira dietro lo stare sospeso”), altre dichiarazioni su materie scottanti suonano inafferrabili perché oscura è l’azione politica, la strategia. Ancora Machiavelli chiarisce la questione: “nella ambiguità e nella incertitudine di quello che altri voglia fare, non si sanno accomodare le parole; ma, fermo una volta l’animo e diliberato quello sia da esequire, è facil cosa trovarvi le parole”.
Per risolvere i problemi di comunicazione, al Nazareno è sufficiente riunire una buona squadra che imbastisca discorsi più lineari; per archiviare i nodi politico-culturali, il tragitto è invece molto più complicato.
Ci vorrebbe un partito vero per approfittare delle lacune di una Meloni che mostra i suoi evidenti limiti perché è vittima di una sovraeccitazione da certezza del trionfo. E questo suo sognare ad occhi aperti, con in mano però il fallimento dell’azione di governo, può provocare azzardi cui fanno seguito le più brusche smentite perché “questa speranza, quando la entra ne’ petti degli uomini, fa loro passare il segno”.
Se si vuole infilzare Meloni, che in romanesco graffia i nemici e in inglese fugge dalle cose di questo mondo, bisogna sfruttare i passi incauti che la patriota compie a raffica per via della “falsa speranza della vittoria la quale fa gli uomini non solamente errare nel dire, ma ancora nello operare”.
Non serve, per ridimensionarla, l’apertura degli “studios” in cui esporre i volti delle élite appesantite dalle troppe burrasche. Occorre organizzare la battaglia di massa sui temi più mobilitanti, quelli che in altri tempi si sarebbero declinati con le parole d’ordine: “pace, lavoro e libertà”.