Il dibattito su salario minimo

“La patrimoniale per riaccendere la lotta di classe”, intervista a Roberto Morassut

«Serve una misura divisiva che renda chiaro con chi stiamo e contro chi stiamo, in questo momento. La sinistra è debole perché ha accantonato la lezione di Gramsci. Le riforme costituzionali? Noi Democratici non possiamo restare in trincea»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli - 22 Dicembre 2023

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Il dem Roberto Morassut
Il dem Roberto Morassut

Al tema della lotta di classe ha dedicato il suo intervento all’Assemblea nazionale del Pd. Un tema al centro del dibattito de l’Unità. La parola a Roberto Morassut, parlamentare Dem, membro della Direzione nazionale, Vice presidente della Fondazione Giacomo Matteotti.

“Scontro sul salario: la lotta di classe è il motore della politica”. Questo è il titolo che l’Unità ha dato a un impegnato articolo di Paolo Franchi, che ha aperto un dibattito a più voci. Qual è la sua?
Al grande tema salariale si somma la questione fiscale. Restiamo il paese con la più alta evasione fiscale d’Europa. Cento miliardi all’anno di evasione fiscale. Una emorragia di risorse che impedisce, ostacola adeguate politiche redistributive e di welfare. Il fenomeno dell’evasione ha molti aspetti diversi al suo interno. È un fenomeno diffuso e trasversale che non riguarda soltanto i ceti alti ma consistentemente settori di ceto medio produttivo e larghe fasce di lavoro autonomo. Quindi diciamo che è una forma distorta di redistribuzione o perlomeno di alleggerimento alla fonte del peso fiscale. Tuttavia non si può negare che in questi anni anche in Italia si siano accresciute grandissime rendite e grandissimi patrimoni generati dalla speculazione finanziaria e immobiliare, che in genere vanno di pari passo, nelle mani di ristrette fasce sociali, le quali non partecipano adeguatamente allo sforzo titanico che il Paese sta facendo. Ecco perché secondo me è giusto proporre una patrimoniale sulle altissime rendite e sugli altissimi patrimoni. La parola “patrimoniale” ha sempre avuto un’aura di sospetto perché la si è caricata di un valore ideologico che fa pensare ad una misura punitiva verso i ceti medi in generale. Ma qui si tratta di introdurre una misura progressiva chiara e indirizzata verso l’alto. Chi ha e chi ha avuto dalla globalizzazione, paghi e sostenga chi invece ne è stato vittima. Serve una misura divisiva che renda chiaro con chi stiamo e contro chi stiamo, in questo momento. Bisogna avere un linguaggio diretto e percepibile. In questo senso si può parlare di una misura che riaccende una lotta di classe in senso riformista e radicale. Questo è quanto ho sostenuto in Assemblea Nazionale qualche giorno fa.

Franchi annota che la vicenda del salario minimo sembra avere riportato nel dibattito la nozione di sfruttati e sfruttatori. Il governo sta con gli sfruttatori. Ma il Pd? Fuori dal Parlamento è ancora il “partito Ztl”?
Il nostro capitalismo continua ad essere arretrato e sottocapitalizzato per ampi settori. Sono antichi retaggi che nonostante tutto continuano ad esercitare un peso che si riverbera sui bassi livelli salariali, sulla sicurezza del lavoro e anche sulla corruzione che, non dimentichiamolo, è l’altra grave e specifica malattia nazionale che “cuba” altri 100 miliardi all’anno di risorse in negativo, circa il 12% del Pil. In questo contesto lo sfruttamento del lavoro è endemico. Ora il Pd ha messo a fuoco con più determinazione questo tema ma lo deve sviluppare contestualmente e nell’estensione e profondità che ho cercato di descrivere.
Mi chiede poi se il Pd è ancora il partito della Ztl. Lo è ma ricordiamoci che oltre la Ztl vota in media il 30% degli elettori. Chi può rivendicare un vero radicamento nelle periferie metropolitane e nelle aree interne? C’è un abbandono generale… La sinistra ha un vecchio retaggio, che ogni tanto ritorna, verso quelle parti di società che sono “fuori” il processo produttivo o comunque estranee alle categorie fondamentali di lettura e interpretazione del mondo della sinistra. Questo retaggio è la categoria marxiana del “Lumpenproletariat”, una massa sociale e umana priva di coscienza e di cultura che viene assunta come un avversario facilmente manovrabile dalla reazione e difficilmente avvicinabile dalla sinistra. Questo retaggio inconscio ci induce periodicamente a perdere di vista l’importanza di nuove letture e nuove politiche che escano dallo zoccolo duro della nostra rappresentanza. Ricordo che Pasolini non era particolarmente apprezzato dal gruppo dirigente del PCI e dallo stesso Togliatti proprio per questa sua proiezione verso un mondo che non rispondeva ai canoni della struttura culturale e sociale dell’idea di cambiamento e di rivoluzione. Fu un grande dirigente come Edoardo D’Onofrio a rompere questo pregiudizio verso Pasolini che comunque non cadde mai del tutto. Oggi abbiamo bisogno di tornare nelle realtà delle grandi periferie metropolitane leggendone la complessità, le sofferenze che partono in primo luogo dal tema del lavoro. Ma qui si dovrebbe aprire una sessione specifica di questa conversazione.

Intervenendo nel dibattito, Giuseppe Vacca, ha sostenuto che le ragioni della debolezza della sinistra vanno ricercate più sul piano storico-politico e culturale che nel radicamento sociale.
Penso che i due aspetti siano collegati tra loro. In questo Marx torna con grande limpidezza di lezione. Se finisce il lavoro operaio con la sua compattezza e concentrazione fisica, vengono anche meno le costruzioni sovrastrutturali, politiche e culturali che conseguono alla condizione materiale dello sfruttamento operaio, della centralità del suo ruolo nel meccanismo produttivo. Tutto si tiene evidentemente. In una società nella quale la materia prima alla base della vita economica era una materia dura che presupponeva molte braccia e molte macchine – a loro volta bisognose di molte braccia – per essere plasmata, trasformata e ridotta in merce, l’egemonia della sinistra nella società non dico fosse più facile ma certamente aveva una base di racconto più diretta. In realtà io credo poi che se c’è stata una debolezza politica e culturale in questi anni di cambiamenti epocali sia stata dovuta all’accantonamento della lezione di Gramsci rispetto ad un richiamo eccessivo e conformista a Togliatti. Gramsci è stato un innovatore, peraltro mediato da una lettura in alcuni casi di comodo. Togliatti un grande uomo politico ma conchiuso all’esperienza del “socialismo realizzato” con le sue contraddizioni, con le sue adesioni e con le sue radicali critiche degli ultimi anni. In questa messa in ombra o per lo meno comoda interpretazione di Gramsci vedo certe debolezze attuali e le difficoltà della sinistra di andare in campo aperto, aprirsi, rielaborare sul campo il concetto di egemonia e complessità di interpretazione della società capitalistica di oggi.

Sostiene Vacca che il primo punto di fragilità della sinistra sta nel paradigma stesso che fu alla base della nascita del Pds, prim’ancora che del Pd: quello della disintermediazione, vale a dire il passaggio, cito testualmente “ dall’idea di una democrazia dei partiti all’idea di una democrazia dei cittadini.”.
Purtroppo, e lo dico da uomo di partito che ha vissuto pienamente dento l’universo sentimentale e ambientale di un partito, i “partiti” del Novecento non esistono più in nessuna parte del mondo. Forse la sola SPD li ricorda, ma nemmeno tanto. Nel mio ultimo libro Centopagine che ho presentato pochi giorni fa al Senato ho sottolineato, credo in linea con le affermazioni di Beppe Vacca, che non può esistere una vera democrazia senza forme di intermediazione. Neanche le piccole democrazie dell’antica Grecia erano caratterizzate dalla “democrazia diretta” la quale altro non è che una forma di dominio sociale e di autoritarismo camuffata da democrazia. Oggi il problema sono le forme delle intermediazioni e in particolare dei partiti. Nell’epoca della democrazia digitale e dell’intelligenza artificiale. E, aggiungo, in un’era segnata dal dominio sempre più forte del macchinismo e della tecnica che sta sgretolando sia le “credenze terrestri” – le utopie politiche dei cambiamenti generali e definitivi – sia le credenze ultraterrene – quelle offerte dalle religioni. È molto difficile pensare alla costruzione di organismi strutturati, verticali, gerarchici, solidi come i partiti di un tempo o addirittura come le Chiese di un tempo. Non si tratta di “piantare” radici ma di navigare. Questo dico nel mio libro. Il mondo si è fatto mobile e lo sarà sempre di più. Disordinato, entropico. Lo stesso multilateralismo come chiave del governo mondiale assomiglia, al momento attuale, più a un disordine permanente che ad un ordine futuro. I valori fondamentali della sinistra debbono restare alti e ben visibili come una stella polare ma le forme politiche debbono essere molto mobili e capaci di assumere l’elemento “ondoso” che ormai ci caratterizza. Umberto Galimberti, nel suo ultimo libro L’etica del viandante lo spiega molto bene, cosi come Aldo Schiavone nel suo Sinistra!. Io penso a un partito-movimento con un nucleo centrale fatto di una fondazione scientifica molto strutturata che lavora sulle politiche e sintetizza i saperi che ci occorrono per interpretare il mondo e forme partecipative molto libere e molto aperte.

A proposito della democrazia nel Pd. Intervenendo nel dibattito promosso dall’Unità, Enrico Morando si è detto, anche qui cito testualmente, “esterrefatto per la sostanziale liquidazione dell’istituto delle Primarie, addirittura sostituite-per la scelta dei candidati Presidenti delle Regioni-da poco trasparenti trattative romane”.
Mah….Parliamoci chiaro. L’introduzione delle primarie per le cariche monocratiche alludeva all’introduzione di un regime politico completamente diverso, basato su un pieno bipolarismo o addirittura bipartitismo. Tutto questo non si è realizzato, come spesso accade in Italia, e si è rimasti a mezz’aria. È una situazione pastosa che andrebbe superata riprendendo la marcia verso un compiuto sistema bipolare e maggioritario che però vuol dire tante cose. Se vogliamo parlarne in relazione alle riforme costituzionali io penso che, come ho già detto in passate occasioni, si possa discutere di una riforma costituzionale in senso semi-presidenziale. Penso che noi Democratici non possiamo stare a lungo in una trincea per dire solo “ciò che non siamo e ciò che non vogliamo”. Che la democrazia parlamentare cosi attualmente configurata si sta da tempo logorando, nell’assenza di una nuova forma dei partiti, che la destra ne approfitta martellando il Parlamento con decretazioni d’urgenza e fiducie senza limite. Bisogna ricostruire un sistema organico di funzionamento delle istituzioni e non si può negare che il tema di dare ai cittadini un potere di scelta triplo – candidato di collegio, coalizione e alfiere della coalizione – esiste. È sentito. Non dobbiamo aver paura di giocare una partita radicale e di egemonia su una tale prospettiva e abbandonare le paure e le prudenze che da sempre ci hanno frenato su queste due questioni. Anche se ricordo che la proposta di un semi-presidenzialismo con una legge elettorale maggioritaria a doppio turno era il cavallo di battaglia dell’Ulivo di Prodi, della Bicamerale di D’Alema e del Pd di Veltroni.

22 Dicembre 2023

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