Caccia allo straniero/6
Corridoi umanitari, la sfida dell’accoglienza
Il Progetto-pilota è stato costruito all’indomani del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 dalla Comunità di Sant’Egidio insieme a Federazione delle Chiese Evangeliche, Tavola Valdese, CEI e al governo italiano. Un modello che può indicare la strada alle politiche pubbliche
Editoriali - di Mario Marazziti
Al termine di questo ragionamento in sei passi sui profughi e sulle politiche possibili e necessarie – oltre le gabbie ideologiche e narrative che alla fine diventano prigioni vere e narrazioni da cui non si sa più uscire, indipendenti dalla realtà – c’è una buona notizia, che si aggiunge all’ultima riflessione fatta sul “modello ucraino” che da quasi due anni è in corso, positivamente, anche in Italia: tutti gli errori fin qui fatti, le distorsioni possono diventare una vera opportunità, basta smetterla.
Se la si smette anche con gli orrori – come spingere/costringere le ONG che sono in mare per salvare a doversi allontanare da gommoni carichi di profughi in mare agitato, che poi, alla fine, muoiono: “Paradossalmente, proprio per aver sottoutilizzato il capitale umano giovanile, femminile, le potenzialità di essere produttivi a tutte le età (gli anziani), il ruolo dell’immigrazione (nel senso del potenziale degli immigrati che già ci sono) l’Italia è forse il paese in Europa che più avrebbe energie potenziali per una spinta in avanti” (Alessandro Rosina e Roberto Impicciatore, Storia demografica d’Italia. Crescita, crisi e sfide, Roma 2022, p. 16).
In altre parole: “trasformare le strettoie in chance”. E una chance in più viene anche dagli immigrati che arrivano e non solo da quelli regolari e tax payers – sprecati, addirittura in parte spinti ad andarsene in altri paesi europei dal clima e dalle insensate angherie amministrative – che già ci sono e sono regolari.
È tutta italiana anche la “via italiana all’umanismo”, la modalità che riesce a “salvare le persone e a coniugare accoglienza e sicurezza” (papa Francesco) per venire in Europa sfuggendo a guerre e persecuzioni, lasciando alle spalle campi profughi e case distrutte senza doversi mettere in mano di trafficanti umani, senza ingrassare governi e loro sodali fuori dall’Unione, da qualunque altra parte del Mediterraneo si trovino, con soldi europei (e italiani).
E si chiama “Corridoi Umanitari”. Progetto-pilota costruito all’indomani del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 dalla Comunità di Sant’Egidio, quasi sempre assieme alla Federazione delle Chiese Evangeliche e alla Tavola Valdese, alla CEI in varie articolazioni, e assieme al governo italiano.
Dal 2016 ad oggi seguito da altri governi europei e non UE, come Francia, Belgio, Andorra, San Marino e, per casi speciali Germania e Svizzera. Utilizza semplicemente l’art.25 del Regolamento Schengen, che permette visti e protezione umanitaria per situazioni di “vulnerabilità”, senza nessun cambiamento legislativo del Regolamento di Dublino – obsoleto e controproducente anche ai fini della sicurezza – senza necessità di un “patto europeo”, su base volontaria dei singoli stati.
Sono arrivate e sono state accolte e inserite così in Italia, in maniera sicura, oltre 7500 persone, includendo gli ucraini a carico dei medesimi promotori , e altre 3000 persone nei paesi che hanno sottoscritto il Protocollo in Europa: tutte famiglie particolarmente vulnerabili, con bambini, necessità urgenti, e senza spese da parte della stato: tutte persone ospitate dalla società civile, a carico di Sant’Egidio, FCEI, CEI, gruppi, associazioni, singoli che si mettono assieme, e che assieme mettono capitale umano, relazioni, risorse personali (poche, 1000, massimo 1500 euro al mese in tutto per un intero nucleo familiare, che scendono man mano che l’autonomia e l’inserimento sociale crescono).
Il risultato è un accompagnamento e una integrazione “personalizzati”, non anonimi, che già nei primi 12, 18 mesi rendono autonomi, capaci di sostenersi, ma anche già inseriti nelle comunità, in grandi città e piccoli centri, dal Nord al Sud, con un altissimo e accelerato livello di integrazione sociale, fino a diventare una rete sicura di accoglienza e di integrazione, o di “restituzione sociale”, anche per altri che arrivano successivamente. Conviene guardare dentro al modello, per trarne gli elementi che permettono di passare a numeri non più solo esemplari, per diventare un programma vasto, win/win, delle politiche pubbliche.
I Corridoi umanitari si differenziano dal resettlement (il trasferimento di rifugiati già riconosciuti titolari di protezione dall’UNHCR da un paese a rischio verso uno più sicuro: e molti ne restano fuori a priori, per esempio tutti i profughi nei campi libici, senza alcun riconoscimento).
Il resettlement, nel tempo, si è anche “imballato” a causa dei contenziosi tra paesi europei fino alla quasi-paralisi), con numeri, in molti stati membri, inferiori a quelli dei “Corridoi”; e si differenziano anche dall’evacuazione umanitaria (trasferimento di rifugiati vulnerabili dalla Libia verso singoli paesi e verso gathering centres, come è successo in Niger e Ruanda, o con alcuni voli charter chiamati “corridoi umanitari”, senza esserlo, al tempo del “modello Minniti”, poi Salvini, godendo del favore del buon nome del programma stesso: che funziona, però, proprio perché non era e non è fatto in quel modo.
Quali sono i punti di forza?
-Nessun costo a carico dello stato e dei contribuenti.
-L’istituto giuridico internazionale della sponsorship: un pezzetto di società civile che si assume la responsabilità della garanzia dell’accompagnamento e degli oneri finanziari: i firmatari dell’accordo con lo stato, i promotori del programma, singoli cittadini che si associano, aiutati da Sant’Egidio e dalla FCEI o altre associazioni, da Migrantes all’ARCI, ma anche associazioni locali, integrati da imprenditori e aziende, amministrazioni comunali come facilitatrici, o per la logistica.
-Nuclei familiari, e non solo singoli. Nel tempo diventa un elemento di stabilità umana e affettiva.
-Le storie individuali sono ascoltate e conosciute prima di partire, e questo si traduce in un tasso di rifiuto della richiesta della protezione e dell’asilo da parte delle commissioni, in Italia, vicino allo zero. Quando ormai il tasso di rifiuti in Italia ed Europa va oltre la metà, fino al 75 per cento: più sicurezza, meno marginalità.
-Il viaggio sicuro, in aereo, in maniera legale. E il matching con le persone che accolgono e accompagneranno nell’inserimento, con la scelta dei luoghi, la casa affittata, prima dell’arrivo. Con l’inserimento scolastico dei bambini, la lingua italiana per gli adulti, qualche riqualificazione professionale, che cominciano dai primi giorni.
-Il bassissimo numero dei “movimenti secondari”, che crea il blocco della solidarietà interna tra i paesi europei.
-L’utilizzo di reti esistenti – incluse quelle degli immigrati stabilizzati – cittadini italiani e non, che diventano un elemento pro-attivo di sicurezza in un processo mai anonimo.
-L’elevato tasso di autonomia, anche finanziaria, che viene raggiunta in tempi ragionevolmente breve.
-L’incontro efficace tra domanda e offerta nel mercato del lavoro, anche questa in forma non asettica, con la possibilità pratica di riqualificazione, e vantaggio dei mondi produttivi, al di fuori dei canali del “sommerso”, del “caporalato” e dei circuiti di sfruttamento favoriti da irregolarità e marginalità.
-L’accelerata integrazione scolastica, ai diversi livelli, dalla primaria alle superiori e all’università, in una fitta interazione con gli “italiani”.
Tutto questo può essere il secondo canale delle politiche di accoglienza pubbliche, una partnership pubblico-privato utile anche alla riqualificazione della seconda accoglienza esistente, il sistema SAI, finora di modesta efficacia sul terreno dell’integrazione sociale e professionale. Con quote importanti di immigrazione regolare attraverso l’ampliamento dell’istituto della sponsorship per l’asilo, familiare e per lavoro e la ricerca di lavoro:
– Per l’asilo politico e la protezione internazionale, con numeri più ampi, e avvalendosi dell’esperienza fatta anche con il “modello Ucraina”, favorendo -come si è fatto, secondo il modello della “sussidiarietà”, la società civile impegnata nell’accoglienza.
– Sponsorship per i ricongiungimenti familiari, superando in maniera realistica le strettoie di un modello che penalizza la famiglia nel paese che ne fa una bandiera. Oggi è possibile, di fatto, solo persone sposate con figli minori e genitori anziani che non hanno altri figli che potrebbero sostenerli nei paesi d’origine. Sono esclusi anche i fratelli e le sorelle, se maggiorenni.
– Sponsorship per lavoro (che già ci sarebbe quando si riaprono quote significative di chiamate) e per la ricerca di lavoro (che non c’è), per esempio, per 12 mesi, garantiti sempre da sponsorship privata: un terzo dispositivo di grande efficacia sia per le esigenze specifiche dei diversi mondi produttivi, che per ridurre il rigonfiamento abnorme dei viaggi della speranza, del traffico umano e dei respingimenti.
Possono essere creati circuiti stabili di scambio con il mondo dell’industria, dell’agricoltura e dei servizi (inclusa la sanità) per il reperimento di professionalità carenti con percorsi non occasionali di formazione e di riqualificazione dei titoli, con vantaggi a tutto campo.
Sull’immigrazione, si può. E si possono fare le cose giuste, quelle raccontate e altre. Per la destra un’occasione per essere intelligente e “compassionevole”, come si dice di una parte dei repubblicani americani. Per la sinistra l’occasione per uscire da una cultura subalterna nell’opposizione, e indicare agli italiani la via per uscire dalla paura e ritornare noi stessi, inclusivi, con il gusto del futuro.
“Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?”, così Dante nel Canto XVI del Purgatorio, che poi è quello sull’origine della corruzione nel mondo. E corruzione non è solo quella dei soldi, ma anche del potere e dell’abuso che c’è in ogni potere quando serve più alla ricerca di consenso che al bene di tutti. C’è da augurarsi che almeno si stia a sentire il padre di tutti gli italiani, lui, sì, un “italiano vero”.
(6. Ultima puntata – FINE)