Parla lo storico

Intervista a Massimo Teodori: “Solo Biden può sconfiggere Trump”

«I sondaggi lo danno nettamente in testa tra repubblicani. La campagna vittimista lo premia: ogni incriminazione fa aumentare la raccolta fondi. L’esclusione dalle primarie in Colorado non cambia granché. Il Donald 2 può essere più pericoloso del Donald 1»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli - 23 Dicembre 2023

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Intervista a Massimo Teodori: “Solo Biden può sconfiggere Trump”

Il fascino dell’isolazionismo e lo spettro di Trump che torna ad aleggiare sulla Casa Bianca. La tenuta, alquanto incerta, di Biden e le incognite nel campo dei Democratici. L’Unità ne discute con uno dei più accreditati studiosi del “pianeta Usa”: Massimo Teodori.

Professore di Storia e Istituzioni degli Stati Uniti, ha insegnato in università italiane e americane Tra i suoi libri sull’America, ricordiamo: Maledetti americani. Destra, sinistra e cattolici: storia del pregiudizio antiamericano (Mondadori), Ossessioni americane. Storia del lato oscuro degli Stati Uniti (Marsilio); Obama il grande (Marsilio); Storia degli Stati Uniti e il sistema politico americano (Mondadori) e Il genio americano. Sconfiggere Trump e la pandemia globale (Rubettino).

Donald Trump è stato escluso dalle primarie in Colorado. Cosa cambia nella corsa alla Casa Bianca?
Nella corsa alla Casa Bianca non cambia granché, perché ogni stato ha una sua legge e una interpretazione della legge elettorale che è particolare. Il codice elettorale presidenziale è un codice che per quanto riguarda le primarie è distinto stato per stato. Il che significa che ogni stato detta legge per quello che riguarda le proprie primarie. Quando poi si tratta di votare direttamente il presidente, a novembre, il codice federale è il codice unico anche se applicato in maniera diversificata, nella sua tecnicalità, da stato a stato.
C’è da aggiungere che una delle questioni giuridico-istituzionali di cui oggi si discute è se la norma invocata dalla sez.3 del 14° emendamento – applicazione della squalifica alle responsabilità federali per i funzionari possa riguardare anche la presidenza. Mai nel corso di un secolo e mezzo v’è stato un caso simile per cui il caso Trump – del tutto inedito – sarebbe una innovazione che, però, difficilmente sarebbe introdotta da una Corte Suprema tradizionalista come quella che oggi siede a Washington.

Per restare nel campo Repubblicano, giudici a parte, sul piano politico Trump ha una strada in discesa?
In questo momento è difficile dirlo. I sondaggi dicono che è in testa tra tutti i candidati repubblicani. Ed è in testa di molti punti, una ventina sui due candidati che lo seguono, che sono Nikki Haley e Ron DeSantis, però sappiamo che nel corso di un anno elettorale, durante le primarie, in più con eventi giudiziari che riguardano direttamente Trump, tutto può cambiare. Se la decisione del Colorado fosse presa da altri tre, quattro stati, soprattutto quelli che pesano maggiormente, la California, New York, il Texas, la Pennsylvania, il Michigan, allora la cosa sarebbe davvero importante e decisiva. D’altro canto, la questione politico-elettorale più imbarazzante per i democratici riguarda l’effetto di potenziamento della campagna vittimista che Trump sta conducendo a furor di popolo. I sondaggi e le valutazioni degli esperti indicano che ogni ulteriore accusa e procedimento giudiziario per le malefatte nei confronti di Trump (4 incriminazioni per 91 reati) si trasforma in un rafforzamento della sua immagine di vittima di una “caccia alle streghe” della sinistra democratica. Il trend sarebbe testimoniato dall’aumento della raccolta dei fondi che, come noto, sono essenziali per il successo delle candidature. Non sappiamo se il circolo perverso, “più accuse, più successo popolare e finanziario” proseguirà nei prossimi mesi decisivi per Trump candidato repubblicano – fino al supertuesday del 5 marzo – in grado di tagliare la strada ai suoi contendenti, prima tra tutti Nicky Halley che sembra avere le maggiori chances nel partito. Certo è che il fenomeno del rapporto tra politica e diritto che in America è stato sempre cruciale dal punto di vista della limitazione dei poteri, sembra essersi invertito con il trionfo del populismo trumpiano e dei suoi sostenitori sovranisti e isolazionisti.

Se Trump ha i suoi problemi, dall’altra parte non è che Biden dorma sonni tranquilli. Gli ultimi sondaggi lo danno in grandissima difficoltà. Perché, professor Teodori?
Perché la sua immagine elettorale è una immagine che fa acqua da tutte le parti. Nel senso che fisicamente trasmette l’idea di un personaggio decadente. Dobbiamo, però, considerare una cosa che ha detto lo stesso Biden, e a ragione, a mio avviso.

Vale a dire?
Finché Trump sarà il candidato repubblicano, io solo l’unica persona in grado di sconfiggerlo. E questo è vero, perché Biden riesce a fare il pieno di una serie di componenti elettorali variegate, che sono essenziali per i voti democratici, in particolare quelli della minoranza nera, della minoranza ispanica, della classe lavoratrice. Biden è riuscito a portare alle urne un’alta percentuale di questi tre settori, a cui aggiungerei anche un quarto settore importante, quello delle donne. Al momento non s’intravvede qualche altro candidato democratico che abbia la forza di mobilitare questi segmenti elettorali. Quello che è determinante, alla fine, è chi va a votare e quanti vanno a votare. Non dimentichiamoci mai che una sconfitta può essere determinata dal fatto, ad esempio, che i neri vanno a votare non all’80% ma al 60%. La stessa cosa riguarda gli ispanici o le donne con un tema, quello dell’aborto, che è stato, soprattutto nelle elezioni di mezzo termine, un tema mobilitante a favore dei Democratici come non si era mai visto in precedenza.

Si dice che la politica estera non incida di molto sul voto presidenziale. Ma ciò che sta avvenendo in Israele e a Gaza racconta un’altra storia, con Biden sotto accusa da parte della comunità musulmana statunitense di essere marcatamente filo-Israele.
Una premessa è dovuta. Nel sistema elettorale americano l’importante è vincere, anche se di poco, in ogni stato per catturarne tutti i voti per il collegio elettorale. Ebbene, ci sono una serie di stati, il Michigan, il Minnesota, la Pennsylvania, cioè stati medio-grandi, che pesano molto nel collegio elettorale, in cui c’è un vasto elettorato musulmano che potrebbe, per la politica filoisraeliana del presidente, non votare Trump, se sarà lui il candidato anti-Biden, ma non andare a votare. Torna il problema di chi va a votare e non tanto se va a votare per un altro, se va a votare o rimane a casa. Questa è la cosa che può cambiare l’equilibrio del voto.

Per restare su questo scenario. La critica verso l’atteggiamento assunto da Biden nella guerra di Gaza, è forte anche all’interno del partito Democratico, soprattutto tra i giovani.
Vede, noi ci troviamo in una situazione simile a quella della fine degli anni ’30. Alla fine di quel trentennio, la maggioranza degli americani e anche della classe dirigente americana, era su posizioni di neutralità, partendo dal presupposto che l’America è difesa da due oceani, è un’isola, che è nata per rimanere fuori, nel momento in cui è nata, dai conflitti che riguardavano l’Europa. E il Congresso americano votò, contro quello che era il sentimento di Franklin Delano Roosevelt, le leggi sulla neutralità. Tutti quanti gli storici sanno che se non vi fosse stato l’attacco giapponese a Pearl Harbor, sarebbe stato molto difficile un coinvolgimento gli Stati Uniti nella guerra. Tant’è che Roosevelt fece approvare una legge di affitti e prestiti per una guerra contro la Germania nazista e l’Italia fascista, portata avanti in quel momento dalla sola Gran Bretagna. Oggi questo sentimento di neutralismo e di isolazionismo, è un sentimento che percorre profondamente, e trasversalmente, tutti gli Stati Uniti. Ed è, insieme al tradizionalismo etico e al conservatorismo più estremo, una delle componenti di coloro che potrebbero schierarsi a favore di Trump. Il discorso è dunque più generale rispetto allo specifico in questione, ed investe anche altri teatri di guerra.

Un isolazionismo “globale”.
La dico così. Il fatto che gli Stati Uniti buttino dei soldi, tanti, per sostenere l’Ucraina o per sostenere Israele, è qualcosa che non è visto positivamente, perché fa parte di quello spirito dell’America come baluardo della democrazia nel mondo che ha sostenuto la politica estera americana dalla seconda Guerra mondiale ai decenni successivi con i patti militari, la Nato etc. Oggi il sentimento dell’America baluardo del mondo è molto sceso. Perché dobbiamo spendere dei soldi per andare a fare queste guerre che non ci riguardano assolutamente. Il nostro nemico è la Cina, e per difenderci dalla Cina noi dobbiamo fare delle guerre economiche, commerciali, e non delle guerre militari in cui spendiamo soldi in armi e ficcarci in una serie di conflitti. Questo è il sentimento isolazionista che ha preso piede negli Stati Uniti negli ultimi anni. Tant’è che uno dei punti cardine di Trump è l’uscita dalla Nato. Una cosa storica di grandissimo rilievo, perché significa ribaltare la politica che gli Stati Uniti hanno seguito dal 1945 fino ad oggi, sia con le amministrazioni democratiche che con quelle repubblicane.
Dicono, in parole povere: ma perché noi dobbiamo fare da scudo agli europei, visto anche che nessuno degli europei ha tenuto fede alla spesa del 2% del Pil per la propria difesa e noi americani ci siano dovuti far carico di difenderli per settant’anni da tutto quello che succedeva, e la pace europea è stata difesa e garantita dai nostri investimenti. Questo è l’elemento di fondo, che fa presa sul contribuente americano, perché tocca il portafoglio. Quello di Trump sarebbe un ribaltamento anche rispetto ad un’ala molto importante della tradizione del partito Repubblicano. Una cosa è certa: Trump 2 sarà diverso dal Trump I. In peggio. Perché oggi attorno a lui si è consolidato un progetto autoritario basato sulla destra radicale.

Oggi scommetterebbe un dollaro sulla tenuta di Biden?
Se Trump diventa il candidato ufficiale del partito Repubblicano, io credo che Biden sarà il suo sfidante. Questo lo si vedrà il 5 marzo, nel supertuesday, un po’ il giorno della verità per Democratici e Repubblicani. Fino ad allora, è tutto indeciso. Ma se qualche altro stato, per qualsivoglia ragione, impedirà a Trump di essere sulla lista di quelli che vanno alla convenzione nazionale, in quel caso penso che anche Biden farebbe un passo indietro. Sarebbe lui stesso a rinunciare. Come del resto ha già detto: finché c’è Trump ci sarò io.

23 Dicembre 2023

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