Solo un altro Maestro, un intellettuale della levatura di Massimo Cacciari, poteva scrivere un’analisi rigorosa del pensiero di Toni Negri, che fosse allo stesso tempo un saluto commosso per un amico che se ne va. Lo ha fatto, Massimo, dalle pagine de La Stampa, domenica, e credo che sia una delle cose più belle che ho letto.
Io, appena saputa la notizia della sua morte, all’alba del 17 dicembre, non ce l’ho fatta a trattenermi. Di getto, con le lacrime che mi scendevano, ho scritto che gli volevo bene. L’ho fatto con un misto di amore e di rabbia.
L’amore per una persona che ho avuto la fortuna, il privilegio, di conoscere bene, e che mi ha in qualche modo cresciuto per 35 anni. La rabbia, perché pensavo a quanto disprezzo e odio si sarebbe di nuovo riversato sul suo nome, da parte di coloro che l’hanno trasformato in un mostro da sbattere in prima pagina ogni qualvolta si parlasse di lui.
Cacciari nell’articolo si augura che i suoi nemici, ora, possano parlarne almeno avendo letto i suoi libri. Non tutti – sarebbe impossibile vista la vastità della produzione letteraria di uno dei massimi filosofi contemporanei – ma almeno quelli sui quali generazioni di studiosi e attivisti, si sono formati il tutto il mondo. Ma non sarà così.
Lo stigma di “cattivo maestro” e nemico pubblico per eccellenza non permette ai suoi detrattori alcuna argomentazione o dissertazione capace di entrare nel merito. Proprio nemico pubblico per “l’eccellenza”. Questo credo sia il primo motivo di odio nei suoi confronti: la sua intelligenza fuori dal comune, e la sua passione, viscerale, per la vita liberata dallo sfruttamento, a tutti i costi.
La vita capace di non separarsi dal pensiero: giusto o sbagliato che sia: così fanno i filosofi veri, dice Cacciari. E Toni, finanche durante le lunghe deposizioni rese da imputato, davanti ai giudici, proprio non ce la faceva a separare la vita dal pensiero.
Una registrazione, preziosa, di Radio Radicale, restituisce il momento in cui, fuori dalla gabbia nel quale lo avevano richiuso per il processo “7 aprile” (una delle peggiori mostruosità giuridiche mai prodotte, come dice Amnesty International) seduto davanti al giudice Santiapichi, spiegava come fosse una assemblea di facoltà, il funzionamento della fabbrica fordista e lo faceva a partire dai tentativi operai di sfuggirne l’oppressione.
La catena di montaggio, il “salto della scocca”, lo “sciopero” che assumeva forme creative di sabotaggio, diventando arma di massa (e non violenta ) contro l’aumento dei ritmi imposto dai padroni. E lo faceva con una tale passione che persino il giudice – si sente dal modo di porgli le rare domande – ne rimaneva rapito. “È come nel film, si ricorda?, Charlie Chaplin quando deve avvitare il bullone, e aumentano i ritmi degli ingranaggi…”.
E quello stare con gli ultimi, con gli operai, davanti ai cancelli di Portomarghera come alla Fiat di Torino, e dopo precipitarsi in facoltà, a Scienze politiche a Padova, e scrivere, elaborare, trasformare quello che vedeva, sentiva, toccava in teorie, analisi, ricerca.
Toni mi diceva che era diventato un “professore” in galera. Chiuso nella cella l’unico modo per “evadere” era stato quello di scrivere libri. “Fino a prima – mi raccontava – io scrivevo volantini, articoli per i giornali militanti, fino a prima ero un militante e basta, e la mia vera università erano la fabbrica, la strada, le assemblee”.
Quando scontava gli ultimi anni di condanna in semilibertà, a Roma, ci vedevamo in una casa di Trastevere, e poi lui doveva rientrare la sera in galera. Mi parlava di Suor Teresilla, del suo “caro e vero amico” Don Luigi di Liegro, mi raccontava di come proprio la Chiesa, quella Chiesa, avesse tentato di tutto per costruire la possibilità dell’uscita dal carcere, seguendo un’idea di “riconciliazione” dopo gli “anni di piombo” come li definivano coloro che non la volevano.
Mi colpiva molto questo rapporto di Toni con la Chiesa. Don Luigi allora era il direttore della Caritas. Ma a impressionarmi non erano loro, donne e uomini di fede, che il Vangelo lo vivevano veramente, sporcandosi le mani, restando al fianco di “peccatori e prostitute”, come faceva Gesù. Era chiaro che per quelle persone, essere cristiani significava questo.
Ma ad affascinarmi allora fu come ne parlava Toni. “Sono bellissime persone, gli unici ai quali ti puoi rivolgere per chiedere aiuto quando sei in galera”. Il loro rapporto – ma non era pensabile con Toni una cosa diversa – era anche spirituale e filosofico. Mi citava discussioni accese, profonde, sui temi del Vangelo che si intrecciavano con la storia di quegli anni.
Nelle ultime pagine di Empire ho ritrovato quell’intreccio, quando Toni parla di San Francesco. Quel suo dibattere con Suor Teresilla divenne presto anche un impegno di scrittura: Toni cominciò a redigere articoli per il trimestrale di formazione e di pastorale mariana della Congregazione delle Suore serve di Maria riparatrici.
La rivista era Riparazione Mariana, pubblicata dal Centro Beata vergine Addolorata. Ma come sempre accade nelle cose vere, quel rapporto tra “diversi che erano diventati amici fraterni”, si saldava sulle pratiche concrete: fin da quando era rinchiuso a Rebibbia, suor Teresilla lo coinvolse nel lavoro a favore dei detenuti comuni.
E dopo Rebibbia, Toni si mise a lavorare con il “Buon Samaritano”, l’associazione che aveva ideato Don Luigi Di Liegro. Nel libro Parole, opere e omissioni edito da Rizzoli, tutto questo è raccontato molto bene. È raccontato bene anche il “tradimento”, l’ennesimo, della politica italiana nei confronti di un possibile e necessario percorso di “riconciliazione” dopo lo scontro sociale degli anni 70.
Questa era la missione di Don Luigi, quando andò a Parigi ad incontrare gli esuli per convincerli a tornare, in cambio di una disponibilità del potere politico a rivedere quegli anni non secondo un’ottica di vendetta, ma di riconciliazione nella giustizia. Come è possibile che il paese delle stragi, della P2, degli intrecci tra il potere politico e quello mafioso, considerasse solo quella generazione di intellettuali, studenti, operai, gli unici colpevoli?
Come è possibile che una stagione lunga più di dieci anni, che aveva coinvolto gli apparati dello stato nella loro più spietata e violenta espressione, e centinaia di migliaia di persone in uno scontro sociale durissimo, con lutti da entrambe le parti, non si volesse finalmente chiudere con un atto politico, e dunque anche di “riconciliazione”?
Don Luigi ci credeva, e sulla base di una disponibilità, data allora da Ciriaco De Mita e Cossiga a ragionare attorno al tema dell’amnistia e dell’indulto, era volato a Parigi per proporlo agli esuli. Toni non ci credeva molto, ma decise lo stesso di tornare. E ancora una volta lo Stato, come a Piazza Fontana, tradì, anche approfittando della morte, nel 1997, di Don Luigi.
Non vi era posto per nessuna riconciliazione, secondo la politica dei palazzi. Riconciliazione doveva rimanere una “questione di Chiesa”, non doveva disturbare la vendetta. Ma soprattutto, la “riconciliazione” non doveva mettere in discussione la storia scritta dai vincitori: tutto il “bene” da una parte, tutto il “male” dall’altra.
I risultati di quella scelta, li abbiamo sotto gli occhi ogni giorno oggi. E in tutto il mondo. Quelli che hanno vinto, e non hanno mai perdonato a Toni e a quelli della sua generazione, di “aver osato”, sono gli stessi che fanno affogare migliaia di esseri umani nel Mediterraneo. Sono quelli capaci di non inorridire difronte al massacro di bambini a Gaza. Quelli che producono e vendono armi di sterminio.
Quelli della devastazione del pianeta terra. Sono quelli della guerra permanente, dei lager in Libia, dei morti sul lavoro, della guerra contro i poveri. Eccoli, i “giusti”. Hanno trasformato Toni Negri in un mostro, faranno così anche con altri.
Ci fanno la morale sulla “violenza” degli anni 70, ma ne producono a dismisura oggi, in odio all’umanità, alla pace e alla giustizia. Vanno a Messa la domenica, criticano il Papa e vogliono una Chiesa obbediente, che li assolva. Ma questa è una storia lunga. Ha duemila anni. E non finisce come vorrebbero loro.