Il problema non è che non escono più i buoni libri, ma quelli che valgono sono oggi sommersi da tutti gli altri, entro un’insensata pletora di offerte editoriali.
Benché consapevole che oggi il critico gode di una autorevolezza minima – sembra che le recensioni incidano sulle vendite del 4%! – mi ostino a consigliare qualche buon libro da leggere nelle vacanze natalizie. Tre romanzi italiani, uno straniero e infine un saggio.
In La casa del mago di Emanuele Trevi (Ponte alle Grazie), ritratto del padre Mario – mitologico psicanalista junghiano – , l’autore ritrova la sua vena più lieve e felice, quella della comicità, benché malinconica. Irresistibile la pagina sul padre che guida la macchina (“qualcuno in un passato mitologico doveva avergli dato la patente”), quasi Fantozzi.
Un libro “meticcio” – romanzo, memoir, ritratto psico-morale, conversazione sull’esistenza, raccolta di aneddoti – a conferma che oggi la letteratura migliore è quella al confine tra i generi letterari. Il padre era un mago. Ma anche il figlio lo è: un mago della scrittura, capace di evocare gli scomparsi e le vite invisibili.
Solo vera è l’estate di Francesco Pecoraro (Ponte alle Grazie), è un romanzo sulla fine di un’epoca storica (con gli scontri del G8 a Genova nel 2001 e l’uccisione di Carlo Giuliani) e sulla fine della giovinezza. Pecoraro è un narratore darwiniano e “geologico” più che storico. La sua diagnosi sul presente è apocalittica, però qui il personaggio femminile di Biba rappresenta una possibile resistenza.
Tuffandosi nell’acqua calda di Anzio cerca il ritmo della nuotata e galleggia indisturbata, quasi addormentandosi: “spira un leggero vento di ponente che si sta estinguendo. Il mare è quasi piatto. È sempre lì. È sempre stato lì”. Si immerge taoisticamente nell’elemento acquatico, eterno e lontano dalla Storia.
Alessio Cremonini, regista romano 50enne (il bel film su Cucchi) – con Ora dormono. Storia vera e immaginaria dei miei antenati tedeschi. (Einaudi) – attraversa intrepidamente il secolo breve, i suoi orrori e i suoi idoli, con la naturalezza di uno storyteller che ci parla di una storia ancora vibrante (tutto nasce dalle carte ritrovate di un prozio tedesco).
Mette tra l’altro in evidenza la imperdonabile colpa dei regimi fascisti (e totalitari): trasformare persone semplici, come qui dei ragazzini innocenti, in sicari, in autentici mostri, dandogli la licenza di fare il male al riparo della legge.
Sarebbe piaciuto a Anna Maria Ortese e a Giorgio Manganelli Morte per grazia ricevuta di Simona Pedicini (Fandango), romanzo funereo e carnale, floreale e sanguinante sullo sfondo di Napoli. Virtù dell’autrice, studiosa di antropologia e tanatoesteta per agenzie di pompe funebri, consiste nell’aver scritto un romanzo che, pur parlando di cosmesi funerarie, non è affatto celebrazione della morte quanto affermazione di una misteriosa compresenza di vivi e morti, nella quale forse consiste la religiosità più autentica.
Il polacco (Einaudi) di J.M.Coetzee, sudafricano, è un romanzo concentrato, potente, su una storia d’amore e di differenze. Lui è un pianista polacco affermato, dal nome impronunciabile, spigoloso come il suo carattere, che a Barcellona per un concerto conosce Beatriz, molto più giovane e sposata. Se ne innamora ma non è ricambiato.
Comincia una corte insistente, fatta di lettere ammalianti e poesie ispirate, che lei subisce scetticamente, con qualche resistenza ma in fondo ne appare lusingata. Potrebbe essere una commedia acre di Woody Allen. Lei gli dice a un certo punto: “Apparteniamo a mondi diversi, a regni diversi. Tu appartieni a un mondo col tuo Dante e la tua Beatrice, io a un altro, che sono abituata a chiamare il mondo reale”.
Per non spoilerare non rivelo il finale. Grande romanzo, che ci riporta alla tradizione più genuina del genere: storia lineare, tesa come un teorema, narrata per frammenti. Ogni frase apre su altri mondi, evoca dimensioni nascoste e meno ovvie dell’esperienza.
Dietro ci sentiamo un pensiero. Ecco, credo che ogni romanzo abbia bisogno di un pensiero sufficientemente solido, sull’esistenza, sulla società in cui viviamo, sul mondo contemporaneo. La letteratura è fatta di idee, che poi si sciolgono in trame e personaggi. Se un romanzo è brutto vuol dire che le idee che lo sottendono erano confuse, come ebbe a dire onestamente Pasolini di una sua poesia inequivocabilmente brutta.
Finiamo sul gelo borghese. C’è un saggio molto bello di una filosofa francese, Estelle Ferrarese (La fragilità della cura degli altri, Castelvecchi), su Adorno, con l’obiettivo di “riarmare la teoria critica attraverso il femminismo”.
Ci ricorda che per la teoria critica il vero nemico, e origine della infelicità e oppressione sociale, è la “freddezza” della borghesia, l’indifferenza al prossimo che soffre, il non lasciarsi coinvolgere dal disagio altrui. Secondo Adorno “per conoscere qualcosa bisogna esserne toccati”: la reazione di disgusto davanti alla tortura inflitta a qualcuno la nostra avversione per la sofferenza fisica, è un “momento involontario della coscienza e del suo passato biologico”.
Per riconoscere il male non dobbiamo disporre di una idea del bene, basta riprendere contatto con quel passato biologico. La freddezza della borghesia, che per i francofortesi si ammantava di razionalità, mira al dominio e alla padronanza, all’autoconservazione individuale e all’adattamento, e disprezza pietà, rimorso, tenerezza.
Poi l’autrice nota che nel capitalismo attuale (“emozionale”), paradossalmente, l’empatia, la cooperazione e la cura degli altri diventano spesso una competenza richiesta nel momento in cui la produzione immateriale si nutre di conoscenza, comunicazione, relazione. E ciò, contro tutti gli apocalittici menagrami alla Cioran, apre spiragli imprevisti per l’umanità attuale.
Per Adorno gelo borghese – ovvero limitarsi a comportarsi nella vita come spettatori – ha reso possibile Auschwitz. Alla fine tutta la letteratura, anche quella più crudele, non è che una denuncia di questo gelo.