Lotta di classe e partiti
Intervista ad Alfredo D’Attorre: “Con Meloni pro-sistema il Pd può diventare alternativa”
«Non c’è un’ortodossia riformistica o un’età dell’oro a cui tornare. Vorrei ricordare che stiamo parlando di un partito che in 15 anni ha perso nettamente. E l’insuccesso ha riguardato anche chi come me per un periodo ha cercato altre strade fuori dai dem»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
La lotta di classe e il passaggio dalla “democrazia dei partiti” alla “democrazia dei cittadini” o, per dirla con Nadia Urbinati, dell’audience. Dibattiti intrecciati che l’Unità ha avviato con un articolo di Paolo Franchi e un’intervista a Beppe Vacca. La parola ad Alfredo D’Attorre, membro della segreteria nazionale del Partito Democratico, con la responsabilità dell’Università. All’attività politica, D’Attore accompagna quella di docente (insegna Filosofia del diritto all’Università di Salerno) e saggista. Ricordiamo il suo libro più recente: Metamorfosi della globalizzazione. Il ruolo del diritto nel conflitto politico (Editori Laterza).
“Scontro sul salario: la lotta di classe è il motore della politica”. Questo è il titolo che l’Unità ha dato a un articolo di Paolo Franchi. Lei come la pensa?
Concordo molto con l’osservazione che Franchi ha fatto a proposito del periodo 2006-2008. In quegli anni, mentre il PD nasceva nel quadro del “paradigma del Lingotto” (la globalizzazione come processo inarrestabile e interamente positivo, il superamento della contrapposizione tra capitale e lavoro, l’abbandono definitivo di ogni identità ideologica, l’imperativo di lasciarsi alle spalle ogni residuo del Novecento), uno dei maghi della finanza globale, Warren Buffet, ammetteva candidamente che la lotta di classe non era affatto finita: semplicemente i capitalisti la stavano vincendo senza più alcuna resistenza. Subito dopo, tuttavia, quel capitalismo finanziario globale, che sembrava ormai anche al nascente PD del tutto privo di alternative, conosceva una drammatica crisi, a partire dal crollo della Lehman Brothers. Una parte non piccola dei problemi che il PD ha incontrato nei suoi ormai oltre 15 anni di vita nascono da lì. dalla difficoltà di correggere l’anacronismo culturale e ideologico che ne è alla base: l’idea di costruire il partito che avrebbe dovuto meglio adattarsi da sinistra alla globalizzazione neo-liberale, proprio nel momento in cui quest’ultima entrava in crisi.
Fuori dal Parlamento il PD è ancora il “partito Ztl”?
La base sociale dell’interno centrosinistra è profondamente cambiata nel corso degli ultimi decenni. È un processo ormai di lungo periodo e non sarà facile né immediato ricostruire un insediamento tra i ceti popolari, nelle periferie e nelle aree interne. La battaglia sul salario minimo è importante perché, per la prima volta dopo molto tempo, è riuscita a creare una polarizzazione con la destra non su un tema culturale o legato ai diritti individuali, ma su una questione di natura economico-sociale. Dobbiamo sapere che il distacco da recuperare è tale che non basta una singola battaglia e che questa va inserita in una cornice più generale. E lo spazio c’è, visto che oggi in Italia la questione del lavoro povero e svalutato è ben più estesa degli oltre tre milioni di lavoratori che sono sotto la soglia dei nove euro orari di salario lordo. Ciò peraltro rende ancora più vergognosa la scelta della destra di negare il problema.
Beppe Vacca ha sostenuto che il primo punto di fragilità della sinistra sta nel paradigma stesso che fu alla base della nascita del Pds, prim’ancora che del PD: quello della disintermediazione.
Personalmente, da convinto proporzionalista, sono convinto da tempo che la sinistra dovrebbe aprire una riflessione critica sugli ormai trent’anni di maggioritario della Seconda Repubblica. L’idea di attribuire direttamente ai cittadini la scelta del governo attraverso meccanismi di natura elettorale si è rivelata illusoria. Si è dato impulso alla destrutturazione dei partiti, si sono accresciuti frammentazione e trasformismo, si è reso paradossalmente più incisivo il potere di ricatto dei piccoli partiti, si è enormemente peggiorata la selezione del personale politico. Io resto convinto di quello che diceva Hans Kelsen ai tempi della Repubblica di Weimar: chi pensa che una democrazia parlamentare possa funzionare senza un ruolo centrale dei partiti politici o è ignorante o è in malafede. Il singolo cittadino in una democrazia di massa non conta nulla se non dispone di quegli strumenti collettivi, i partiti appunto, in grado di far sentire la voce di chi ha idee e interessi simili. A meno che il singolo cittadino non disponga di mezzi economici o di comunicazione rilevanti. Non è un caso che sia stata quest’ultima categoria di cittadini particolarmente attiva nell’imporre la tesi che i partiti fossero ormai inutili o dannosi…
Enrico Morando, sempre su l’Unità, si è detto “esterrefatto per la sostanziale liquidazione dell’istituto delle primarie, addirittura sostituite per la scelta dei candidati Presidenti delle Regioni da poco trasparenti trattative romane”.
Le primarie sono uno strumento talora utile, ma non credo ci sia qualcuno ancora disposto a definirle come il DNA del PD. Confido che ci siamo tutti di nuovo convinti che il DNA di un partito vada individuato nella sua visione del mondo, non in una disposizione organizzativa dello Statuto… Detto questo, non so dire sinceramente se sia stato giusto non fare le primarie in alcune realtà. Se guardo allo stato dell’arte in Sardegna, Basilicata e Piemonte, tenderei però ad escludere che ci sia stata una regia romana occulta, mi paiono al momento prevalenti le dinamiche locali. Fin troppo prevalenti, a dire il vero.
A che punto è il processo di rinnovamento del partito?
Credo che ci sia bisogno di accelerare sulla riforma e sulla trasformazione del partito anche a livello territoriale. L’attuale modello organizzativo tende a favorire il ruolo di filiere organizzate attorno ai vertici istituzionali più che una vera partecipazione politica dei militanti. La segretaria ha annunciato in chiusura dell’ultima Festa nazionale de l’Unità una conferenza sulla forma-partito. Penso che sia una cosa molto importante a cui lavorare subito dopo le europee, se vogliamo dare concretezza a un nuovo progetto di radicamento.
Le europee possono rappresentare un terreno più favorevole per il nuovo PD di Elly Schlein?
Stavolta la sfida è più complessa, perché non abbiamo di fronte una destra che si propone esplicitamente la fuoriuscita dall’Europa. Per questo non basta la convenzionale contrapposizione fra europeisti e anti-europeisti. Si tratta di delineare, come abbiamo iniziato a fare, un “europeismo del cambiamento”, che sfidi e critichi quell’UE a scartamento ridotto a cui rischiamo di tornare dopo la svolta post-pandemia e con la quale la destra sembra invece a proprio agio.
C’è il rischio che la svolta moderata di Giorgia Meloni tolga al PD anche la rendita di posizione di garante degli equilibri sistemici?
Noto in effetti questa preoccupazione in qualche ambiente del mio partito. Io la penso esattamente all’opposto. Nel momento in cui la Meloni sarà definitivamente percepita come del tutto funzionale al mantenimento degli “equilibri sistemici”, allora si aprirà lo spazio dell’alternativa. E il PD, per farsi trovare pronto, non può continuare a pensarsi solo come il partito che rassicura l’establishment, ma deve rendersi credibile come forza del cambiamento. Il che vuol dire mantenere la serietà di una forza di governo, ma con un progetto capace di “disturbare” i poteri interni ed esterni che sorreggono uno status quo ormai percepito dalla maggioranza della società come iniquo e insostenibile.
Il voto sul Mes può restituire al PD il suo ruolo di “baluardo europeista”?
No, e non penso che sarebbe neppure utile. Va denunciato l’uso del tutto propagandistico e inefficace sul piano negoziale che la destra ha fatto del tema. Guardando al nuovo Patto di Stabilità, la logica del pacchetto si è risolta nell’accettazione del “paccotto”. Ma il Mes, anche quello parzialmente riformato, non è la nuova Europa. Dobbiamo recuperare il coraggio di proposte forti come quelle di David Sassoli, che ragionava (allora tra lo scetticismo anche di parte del suo partito) di come sterilizzare il debito pandemico detenuto dalla Bce. Non farci guidare da un riflesso condizionato per cui qualsiasi indicazione viene da Bruxelles va accolta immediatamente. Un certo europeismo subalterno e benpensante (del tutto favorevole negli anni precedenti ai tagli al sistema sanitario, a partire da Renzi) ci ha fatto discutere per due anni in Italia del “Mes sanitario”, strumento che nessuno ha adoperato in Europa.
Lei non vede il rischio – che diversi paventano – di uno snaturamento del PD in chiave movimentista e protestataria?
È un rischio che va evitato alzando il livello dell’elaborazione culturale e della proposta programmatica. Ma, attenzione, non c’è un’ortodossia riformistica o un’età dell’oro a cui tornare. Quando sento parlare della natura del PD da preservare come se fosse una garanzia di successo, vorrei ricordare che stiamo parlando di un partito che in 15 anni ha perso nettamente tre elezioni politiche (2008, 2018, 2022) e che solo una volta, nel 2013 con Bersani, ha prevalso di stretta misura. E onestamente l’insuccesso poi ha riguardato anche chi, come me e altri, è stato spinto per un periodo a cercare altre strade fuori il PD. Segno che i problemi sono molto profondi. Mi chiedo: siamo tutti davvero tutti umilmente consapevoli della profondità della richiesta di cambiamento che l’elezione di Elly Schlein ci consegna, o pensiamo magari ancora una volta di cavarcela con qualche maquillage o con una nuova manovra di palazzo?
Sulla proposta di riforma costituzionale pensa anche lei che il PD dovrebbe non limitarsi a dire no e avanzare una proposta alternativa?
Il monstrum giuridico-costituzionale del premierato è inemendabile, su questo è bene essere chiari e netti. E non basta dire che incide sui poteri del Presidente della Repubblica. La vera anomalia è che riduce il Parlamento a un organo privo ogni legittimazione autonoma, del tutto dipendente dall’esecutivo fin dalla sua formazione. Molto peggio di un sistema presidenziale dotato di veri contrappesi tra potere esecutivo e legislativo. La nostra proposta alternativa mi pare si stia delineando attorno al cancellierato alla tedesca, su cui credo possano convergere anche le altre forze di opposizione. Va chiarito solo un ultimo aspetto, decisivo tuttavia. I modelli hanno la loro coerenza e quello tedesco ha nel sistema elettorale proporzionale con sbarramento un suo fondamento essenziale. Io credo che dobbiamo essere espliciti anche su questo punto cruciale nel difendere e rilanciare un sistema parlamentare ammodernato.