Parola al parlamentare dem
Intervista a Matteo Orfini: “Così il Pd del Lingotto ha rimosso il conflitto”
«C’è tanto su cui riflettere invece di occuparci di federatori. Per i dem è stato un anno di rodaggio, ma il partito di Schlein è più forte di quello lasciato da Letta»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
La lotta di classe ha bisogno di un partito organizzato, che abbia come orizzonte ideale e politico quello del cambiamento. Parla Matteo Orfini, parlamentare e membro della Direzione Pd, già presidente del Pd.
L’Unità ha aperto e intrecciato due dibattiti, molto partecipati e plurali. Uno, sull’attualità dell’idea della lotta di classe, aperto da uno scritto di Paolo Franchi, e l’altro sul passaggio critico dalla “democrazia dei partiti” alla “democrazia dei cittadini” o dell’audience, con una intervista di Beppe Vacca.
La riflessione di Franchi coglie diversi punti veri e forse anche rimossi dal dibattito di questi mesi. Non c’è dubbio che nella società esista il conflitto e la rimozione di esso è una delle ragioni per cui la sinistra non riesce più a parlare a chi il conflitto lo perde o lo subisce. Franchi fa bene anche a ricordare che questo è un tema di lungo corso. E una verità storico-politica dobbiamo dircela anche se so che non tutti saranno d’accordo…
Qual è questa verità?
Il Pd nasce dalla rimozione del conflitto. Il Pd del Lingotto teorizzava che tutti nella società vogliono la stessa cosa e che ci sono solo modi diversi di raggiungerla. Il lavoratore sfruttato e l’imprenditore che lo sfrutta vogliono la stessa cosa. Evidentemente non è così. Non è stato così. E la rimozione di quelle diversità e di quel conflitto ha prodotto diversi danni anche nella crescita del Partito Democratico.
È un dibattito che facemmo qualche anno fa, ai tempi della segreteria Bersani. Quei conflitti non visti o negati nel frattempo, nel corso degli anni, si sono radicati nella società e hanno aperto faglie nuove dentro alle quali la sinistra avrebbe dovuto costruire una capacità di rappresentanza e di presenza, mentre questo non è avvenuto. Anche perché, ma questo Franchi non lo dice e non so neanche se lo pensa, per molti anni il Pd è stato piegato ad una logica della responsabilità, i politologi direbbero della governabilità, che in qualche modo ne ha fatto l’architrave di un sistema. L’idea che per senso di responsabilità si dovesse quasi arrivare alla rinuncia ad una soggettività del Partito democratico sui temi più spinosi, per garantire l’equilibrio del sistema. Questo si è visto negli anni del governismo senz’anima.
Vale a dire?
Gli anni in cui tante cose buone abbiamo fatto ma siamo stati percepiti come garanti di uno status quo, che però era lo status quo dentro il quale si creava quel conflitto e aumentavano le diseguaglianze. Generalmente quelle che garantiscono lo status quo sono le forze conservatrici non quelle progressiste. Il combinato disposto di questi aspetti ha prodotto la fatica del Pd e della sinistra in generale a rappresentare le fasce più deboli della popolazione e più in generale a stare dentro quei conflitti. Il conflitto è nella natura della democrazia, in qualche modo ne è l’essenza. Poi sta alle forze politiche comporlo, interpretarlo e cercare la sintesi. Quelle differenze che Franchi evoca, richiamando la categoria della lotta di classe, nella società oggettivamente esistono. Basta guardarsi attorno per accorgersene. Se non trovano rappresentanza, o si consegnano al populismo o ripiegano nell’astensionismo. Quando sei escluso dai processi produttivi ti autoescludi da quelli di rappresentanza.
Un altro punto di crisi, segnalato da Beppe Vacca, è quello del passaggio dalla “democrazia dei patiti” alla “democrazia dei cittadini”, quella che sempre su questo giornale, la professoressa Urbinati ha definito la “democrazia dell’audience”, sottolineando, con preoccupazione, che essa può essere l’anticamera dell’autoritarismo.
Anche questo è uno degli elementi di tensione che ci sono sempre nella democrazia. Cambiano gli strumenti ma non la problematica. Noi veniamo da anni in cui una ideologia individualista nella società e liberista nell’economia, ha lavorato scientificamente a smantellare i corpi intermedi, tutto ciò che costruiva comunità. Nel secondo dopoguerra, passammo dall’essere un paese di derelitti ad una delle principali potenze mondiali, perché ci furono grandi partiti di massa che organizzarono quei derelitti e li trasformarono, di fatto, in classe dirigente, in soggetti produttivi, in protagonisti della democrazia e fecero grande l’Italia.
E poi cosa è successo?
È successo che veniamo da decenni in cui lo smantellamento del tessuto che teneva insieme le comunità e il paese, è stato teorizzato e perseguito anche a sinistra. La disintermediazione è stata teorizzata anche dalle nostre parti in diverse stagioni, e questo ha reso più fragile il tessuto della nostra democrazia. I partititi sono la democrazia che si organizza, diceva Togliatti. Una democrazia senza corpi intermedi è una democrazia debole, più fragile, maggiormente esposta a rischi di populismo autoritario. Ed è un discorso che non riguarda solo i partiti, ma si allarga al tessuto complessivo della società, all’associazionismo, al mondo dell’impresa e a quello dei sindacati. Ricostruire corpi intermedi contemporanei è un pezzo del lavoro oggi. Gli strumenti sono, appunto, tali, e possono essere utilizzati in una direzione o nell’altra, cercando di avere in mente che ricostruire il tessuto della società – oggi sfibrato e rende la società un qualcosa fatto da tante solitudini e individualismi, rendendola così più fragile e debole – è un pezzo importante del lavoro che dobbiamo fare. E questo riguarda tanti settori. Pensiamo al mondo del lavoro e dell’impresa. Una cosa che abbiamo dimenticato da tempo, è il modello cooperativo, un modello molto legato alla storia del nostro paese e della sinistra. Quel modello è, a mio avviso, un pezzo della risposta da mettere in campo davanti alla torsione del capitalismo. Un modello, quello cooperativo, interpreta in modo comunitario e sociale il tema stesso di come si fa impresa, di come si redistribuisce il valore produce con i lavoratori. Ci sono tante cose che dovremmo certamente rendere contemporanee ma che riguardano la riflessione che dovremmo fare, magari un po’ più che occuparci di federatori e annessi.
A proposito di una identità forte. Siamo in giorni di bilanci. Questo è un anno che si chiude in una situazione di guerra. Le immagini e le notizie che arrivano da Gaza sono terrificanti e c’è il rischio sempre più immanente che il conflitto si estenda.
Sta accadendo quello che avevamo rimarcato nella nostra precedente conversazione, cioè il fatto che quella di Israele è una reazione al sanguinoso ed esecrabile attacco del 7 ottobre da parte di Hamas, sproporzionata. A Gaza c’è una situazione apocalittica, inaccettabile.
Inaccettabile da qualunque punto di vista. Da più parti vengono richieste di un cessate il fuoco umanitario alle quali si risponde annunciando che si andrà avanti per mesi con i bombardamenti e con la guerra. La mia sensazione, e non sono il solo per fortuna a pensarlo, è che tutto questo non porterà alla pace e non renderà migliore la prospettiva dei prossimi anni. Perché si sta accumulando odio, risentimento, rabbia, una devastante miscela esplosiva. In queste situazioni si dovrebbe lavorare per prosciugare i giacimenti dell’odio, come ebbe a dire Massimo D’Alema ai tempi dell’11 Settembre. Invece mi pare che qui i giacimenti siano stati ampiamente alimentati in questi mesi. Qui c’è anche un limite grande della comunità internazionale, dell’Europa, dell’Italia. Noi lo abbiamo detto anche al Governo, che ha vantato sempre un forte legame di amicizia con Netanyahu. Begli amici, verrebbe da dire. Se un Governo che Giorgia Meloni reputa amico, sbaglia, si tratta di fare tutto il possibile per porre fine a quell’errore, cosa che non è avvenuta e continua a non succedere. Abbiamo bisogno di un cessate il fuoco subito, di missioni umanitarie e di pace. Bisogna fermare l’apocalisse. Tenendo sempre altissima l’attenzione su fenomeni, sempre più frequenti e inquietanti, di antisemitismo che stanno attraversando e marchiando anche le democrazie occidentali. L’escalation dell’orrore è anche questo.
I bilanci di fine anno si condensano anche in voti. Che voto dà al 2023 del Pd “targato” Elly Schlein anche in prospettiva degli importanti impegni, politici ed elettorali, del 2024?
È stato anno di congresso, di cambiamenti per il Partito Democratico, c’è un nuovo gruppo dirigente che in larga parte è dovuto entrare nei meccanismi del Pd, che molti conoscevano poco. È stato sicuramente un anno di rodaggio. Detto questo, va subito aggiunto che è un Partito Democratico oggi più forte di come lo aveva lasciato Enrico Letta quando scelse di aprire la stagione congressuale. Allora, nei sondaggi eravamo sotto il Movimento 5Stelle, dati a rischio estinzione, mentre oggi siamo la prima forza dell’opposizione, gli unici che stanno cercando di costruire un’alternativa alla destra, come dimostra la generosità che stiamo mettendo nell’evitare le polemiche anche quando i nostri alleati sembrano più vogliosi di fare più opposizione a noi che a Giorgia Meloni. Tutto sommato, è un bilancio positivo. Naturalmente il Partito democratico deve fare di più. Capisco le critiche e le sollecitazioni. Vedo i problemi che come gruppo dirigente del Pd abbiamo, e penso che dobbiamo lavorare ancor di più per far crescere il Pd e attorno al Partito democratico far crescere un’alternativa alla destra.
È vero che la Meloni e la destra sono forti. Ma è altrettanto vero che s’iniziano a vedere le prime crepe in quel blocco di consenso. E qui torniamo al tema che è stato al centro di questa conversazione. Il conflitto esiste nella società e non sta trovando risposte. Molte di quelle fasce più deboli della popolazione, avevano votato Meloni e l’hanno vista poi levargli i sostegni al reddito, levarglieli quando non riescono a pagare l’affitto, tagliare la sanità pubblica, i servizi, non sostenere le aziende fatte da imprenditori veri, quelli che investono e non sfruttano. Tutto questo inizia a creare qualche dubbio in chi l’ha votata. Con la legge di Bilancio, inizia una partita cruciale non solo in parlamento ma soprattutto nella società per spiegare quanto il messaggio e le promesse della destra fossero truffaldini. Lì il Pd deve crescere ed avere la forza di radicarsi. Essere partito. Va bene concentrarsi sulle leadership ma i partiti sono delle comunità. Ed oggi ognuno di noi deve farsi carico della crescita del Pd, non lasciare che sia legato solo all’effetto Schlein. È un tema che deve farci sentire tutti coinvolti e partecipi, fino all’ultimo militante. Proprio perché siamo un partito.