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“Hamas c’è dal 2006, la tragedia palestinese da 75 anni: oggi siamo nel pieno di un genocidio”, parla Raniero La Valle

“Hamas c’è dal 2006, la tragedia palestinese da 75 anni: oggi siamo nel pieno di un genocidio”, parla Raniero La Valle

L’apocalisse di Gaza, il Natale oscurato a Betlemme, l’impunità che si fa licenza di genocidio. L’Unità ne discute con Raniero La Valle, scrittore, saggista, politico, voce libera e autorevole in un tempo dominato dal pensiero “mainstream”.

Le immagini e le notizie che giungono da Gaza danno conto di una mattanza senza fine.
Siamo nel pieno di un genocidio. Dovremmo cominciare ad imparare come comportarci quando c’è un genocidio in corso. Se avessero saputo quello che stava succedendo al momento del genocidio degli ebrei da parte dei nazisti e non avessero fatto nulla, non si farebbe altro oggi che lamentare la crudeltà di questa assenza, di questo disinteresse. Del resto è già avvenuto.

Vale a dire, senatore La Valle?
Quando chiesero agli inglesi di bombardare la ferrovia che andava ad Auschwitz, gli inglesi non lo fecero perché dissero di avere cose più importanti da fare. Adesso c’è un genocidio in corso in Palestina, che riguarda tutto il popolo palestinese ed io credo che non si dovrebbe fare altro che cercare di scongiurare questa sciagura e farla terminare. E se questo non accade, vuol dire che c’è ormai un cuore di pietra che si è diffuso in tutto il mondo, a cominciare dai grandi centri di potere che potrebbero decidere qualche azione, qualche forma di persuasione o d’influenza sulla politica d’Israele e invece non lo fanno.

C’è una immagine di grande impatto simbolico che racconta la tragedia in atto in Terrasanta: Betlemme al buio nella notte della Natività.
A Betlemme quest’anno non si è potuto celebrare il Natale. Tutte le Chiese cristiane di Gerusalemme hanno esortato i fedeli a limitare al massimo le celebrazioni, riducendole praticamente alle messe e ai riti strettamente religiosi, perché non si poteva in quelle condizioni festeggiare proprio nulla. Né luci, né luminarie, né negozi aperti, né pellegrinaggi, perché a Betlemme non ci si poteva neanche arrivare. C’è un muro alto 8 metri che divide Betlemme dal resto della Palestina, abbiamo saputo di funzionari dell’Onu che avrebbero voluto andare a Betlemme e hanno potuto farlo solo con un permesso israeliano e con un convoglio scortato.

Che messaggio è questo al mondo, non solo quello cristiano?
O si cambia oppure andiamo tutti verso una tragedia senza limiti.

Perché quando si criticano politiche condotte da governi israeliani come la massiccia colonizzazione della Cisgiordania ed oggi la guerra senza limiti a Gaza, chi lo fa viene subito tacciato di antisemitismo?
Purtroppo questo dipende dal fatto che non si riesce a distinguere, anche per responsabilità dello stesso Stato d’Israele, tra le politiche e le guerre d’Israele e la realtà di tutto il popolo ebreo, sia d’Israele sia della diaspora, che non ha una responsabilità nei confronti di quelle che sono le politiche dei governanti d’Israele e dei centri di potere d’Israele che decidono le condotte da seguire. La cosa più grave è proprio l’identificazione tra lo Stato d’Israele, nella forma che oggi ha assunto, soprattutto con la sciagurata guerra in corso, e la realtà di tutto il popolo ebreo della diaspora. Il pericolo è che la riprovazione che viene oggi in maniera così diffusa rivolta a Israele, finisca per ricadere su tutti gli ebrei. E questo è un pericolo tremendo che bisogna cercare di evitare, ma l’unico modo per evitarlo è di stabilire una distinzione tra le due realtà. Una cosa è uno Stato, con tutte le sue ragioni, con le sue armi, con le sue logiche, con le sue politiche, altra cosa è il popolo d’Israele, la sua fede, la sua tradizione, le sue Scritture, i suoi dolori. Da questo punto di vista, l’immane tragedia in atto, ripropone con forza e drammaticità un cambiamento possibile e necessario oggi.

Quale?
È quello reclamato da Primo Levi nella intervista a Gad Lerner del 1984, ed è una distinzione, se non una presa di distanza, tra la Diaspora degli Ebrei sparsi nel mondo e lo Stato di Israele, e per noi la distinzione tra lo Stato di Israele e il popolo ebreo della diaspora, a cominciare dagli Ebrei di Roma e d’Italia. Il centro di irradiazione dell’ebraismo, dice Primo Levi, non può essere oggi lo Stato di Israele, a cui noi ebrei della diaspora dobbiamo ricordare la tradizione ebraica di tolleranza. Diceva Levi che questo passaggio del baricentro dell’ebraismo dallo Stato di Israele agli ebrei della diaspora, riguardava l’attuale – e sottolineava l’attuale – Israele, cioè l’Israele di allora, figuriamoci che cosa si debba dire dello Stato di Israele di oggi. Solo se si riesce a separare il popolo ebreo dalla macelleria israeliana di Gaza e della Cisgiordania è possibile resistere all’antisemitismo risorgente, e per dirla in modo ancora più angosciato, solo se si distingue lo Stato apocalittico di Israele dal resto dell’ebraismo, si può salvare il popolo ebreo.

Quella in atto si configura sempre più come una guerra all’intero popolo palestinese. Tuttavia, una stampa mainstream di casa nostra, continua a sostenere che il popolo palestinese è ostaggio di un’organizzazione terroristica. Ostaggio di Hamas.
La tragedia del popolo palestinese dura da 75 anni. Hamas solamente nel 2006 ha avuto la maggioranza politica a Gaza, e prima non esisteva per niente. Quella a cui lei faceva riferimento, è un’affermazione del tutto priva di fondamento storico e non ha nulla a che fare con la realtà.
Hamas è un frutto, se vogliamo dirlo, avvelenato, di una disperazione palestinese che è stata scelta come strumento per l’instaurazione dello Stato d’Israele in Palestina.

Nel mondo ci sono tante minoranze, etniche, politiche, religiose, che subiscono repressioni brutali, ma l’unico popolo sotto occupazione è quello palestinese.
Sotto occupazione ce ne sono anche altri, solo che la questione del rapporto tra Israele e i palestinesi è unica al mondo, non ce ne è un’altra uguale a questa.

Perché questa unicità?
Perché anche lo Stato d’Israele è unico al mondo, non ce n’è un altro paragonabile ad esso.

Siamo in giorni di fine anno. Tempo di bilanci. Il 2023 ci consegna un mondo in guerra, Palestina, Ucraina e altri conflitti colpevolmente ignorati dalla comunità internazionale e anche dai media. Il disordine mondiale ha sempre più i caratteri di quella che Papa Francesco ha definito una “guerra mondiale a pezzi”.
Il rischio è che la guerra mondiale a pezzi diventi una guerra mondiale unica, universale. E’ chiaro che noi siamo tutti quanti vittime e carnefici. Occidente ed Oriente. Le cosiddette democrazie e le cosiddette autocrazie. Siamo tutti sull’orlo del baratro. O noi cambiamo il modo di concepire il mondo, oppure dentro questo baratro prima o poi ci cadremo. Il problema non è di negare che le diverse entità, i diversi Stati, i diversi popoli del mondo, siano in competizione tra loro, una cosa che in una civiltà di carattere dialettico, è abbastanza inevitabile. E questa competizione può essere una competizione politica, una competizione economica, una competizione culturale, e questo è legittimo, e nella misura in cui non sia una competizione che raggiunge elementi di parossismo o di violenza, è del tutto naturale. Quello che invece bisogna assolutamente respingere è che questa competizione debba essere una competizione strategica, come affermano i documenti ufficiali americani oggi in vigore, di carattere militare. Se la competizione tra gli Stati diventa una competizione strategica militare, alla fine di questo itinerario non c’è solo il conflitto mondiale. C’è la fine di tutto. Non bisogna mai dimenticare il fatto che oggi la guerra mondiale non è solamente sotto la minaccia dell’arma nucleare, come è stato per tutto il ‘900. Oggi c’è anche una intelligenza artificiale che ha moltiplicato per cento, per mille, la capacità distruttiva di una guerra nucleare e con armi di distruzione di massa.

Conclusione?
O si esce da questa sindrome della competizione militare strategica, o cambiano gli Strati Uniti che hanno adottato questa linea come politica ufficiale, e per questo si dotano della più grande forza militare al mondo, dunque o c’è un cambiamento dell’impostazione mondiale della politica americana, oppure anche gli altri saranno costretti a rispondere come possono a questa competizione militare strategica, e siccome sono molto più deboli degli Stati Uniti, saranno travolti. Ma insieme a loro saranno travolti tutti gli altri.

Un tempo la sinistra italiana aveva una forte vocazione internazionalista. Perché si è smarrita oggi?
Probabilmente la divisione ideologica, che era anche una divisione ideale, che c’è stata nel periodo del secondo dopoguerra in Italia, portava con sé anche una forte accentuazione di questi elementi relativi alla scelta della pace, o delle alleanze, o della contrapposizione tra le parti.
Oggi non c’è più pensiero. Non c’è più cultura, non c’è più etica, politica. Si parla solo d’interessi, di concorrenza, di sviluppo economico, si parla solo di crisi materiali, e quindi il tema della pace, che è il tema etico per eccellenza, è scomparso.

Questo non immiserisce una democrazia?
La democrazia l’abbiamo già perduta. Perché quando sono perduti i diritti, quando si compiono i genocidi, o chi li fa resta impunito, quando si accetta il sistema di guerra e non si fa nulla per rimuoverlo, la democrazia esiste solo di nome. Esiste solo nella procedura elettorale. La tragedia è che ormai la democrazia viene identificata col fatto che vengono eletti dei rappresentanti per detenere il governo. Ma questa non è affatto la democrazia. Questa è soltanto una procedura per la selezione della classe dirigente. Non ha nulla a che fare con la democrazia.

Agli appelli per un cessate il fuoco umanitario a Gaza, Israele risponde che la guerra durerà ancora per mesi. Quale strumento la comunità internazionale ha per imporre il cessate il fuoco e ripristinare la legalità internazionale?
Il sistema giuridico internazionale è stato distrutto. Ed è stato distrutto proprio nel momento in cui si è scelta la competizione strategica militare come modo di rapporto tra le potenze nel mondo. La competizione strategica militare ha fatto sì che si sia spezzata quella struttura inventata dopo la seconda Guerra mondiale, che era il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in cui i 5 paesi – Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina – che avevano combattuto insieme il nazismo e avevano vinto quella guerra, si erano impegnati ad assumere la responsabilità della pace e della sicurezza del mondo. Nel momento in cui questi 5 paesi sono divisi da una sfida ad oltranza in cui l’uno è la vittima designata dell’altro, è chiaro che tutto il sistema giuridico internazionale è crollato.