La testimonianza
Io, detenuto ergastolano sono cambiato ma lo Stato non è pronto per il mio cambiamento
Aiutare il cambiamento della persona e del suo modo di pensare e di agire che lo ha portato a sbagliare, questo può disarmare quel male, perché il male è nell’azione, non nella persona.
Giustizia - di Massimo Zanchin
Vivo in carcere da più di 10 anni, condannato in via definitiva. Il mio giudice nella condanna ha voluto scrivere con caratteri cubitali: fine pena mai. Nonostante l’abbia scritto in quei modi, io leggo e voglio leggere: fine pena con data da destinarsi.
Non so se sono in grado di dire la cosa giusta e non ho questa pretesa, anche perché la cosa giusta è la conseguenza del giudizio dell’uomo, e già per questo difetta per sua natura.
Però posso fare una cosa: parlarvi con onestà d’animo e con onestà intellettuale e per testimonianza diretta di ciò che vivo, di ciò che vedo, di ciò che provo.
Per poter accedere ai benefici, a un detenuto si chiedono due condizioni: la giustizia riparativa e la revisione critica del proprio passato. In linea di principio, non è sbagliato; se mi deve essere data fiducia, devo dare un mio contributo. Alla fin fine, con queste condizioni, lo Stato cosa chiede? Se io ho volontà di cambiare.
Però, mi sovviene un’altra domanda: lo Stato questo cambiamento lo vuole? Insomma, mi si dettano delle condizioni che io accetto di buon grado, eppure, non mi si danno gli strumenti affinché io possa adempiere. Ma se non si fa in modo di poterle soddisfare, queste condizioni che mi vengono richieste sono inesigibili.
E l’inesigibilità di queste condizioni delegittima la norma stessa. Io non voglio fare solo della polemica. C’è bisogno di avere voglia di fare e di introdurre strumenti affinché si possa fare.
Il primo è che lo Stato dia più autonomia di gestione alle amministrazioni penitenziarie e più aiuti in termini economici. In secondo luogo, dovrebbe dare più aiuti in termini di personale, sia per l’area educativa sia per la sorveglianza. Terzo, occorre favorire una vera attività di mediazione.
In termini economici, l’amministrazione penitenziaria dovrebbe poter sponsorizzare iniziative lavorative affinché il carcere possa diventare un microcosmo, una comunità che si autoalimenti, si autogestisca, col risultato che la voce di spesa dei penitenziari non sia più una voce di spesa, ma una voce di risparmio.
Per quanto riguarda il personale, l’educatore è una figura importantissima, ma purtroppo è carente non per mancanza di volontà, ma perché ogni educatore ha in carico un numero di assistiti tale che non gli permette di fare il suo lavoro, e questo a discapito di un dialogo col detenuto ai fini anche di una revisione critica del suo passato.
E poi più personale di sorveglianza, perché uno degli impedimenti alle attività lavorative, soprattutto per i detenuti del circuito di Alta Sicurezza, è che non possono essere accompagnati e monitorati nelle varie attività. E questo a discapito anche di una giustizia riparativa. Infine, la mediazione.
Esistono tre figure, lo Stato, il detenuto e la Comunità o i parenti delle vittime, e noi uno sguardo lo dobbiamo dare anche ai parenti delle vittime. Che attività di mediazione? Che vigilanza c’è nella loro sofferenza? Anche i parenti delle vittime sono abbandonati al loro dolore. Per cui accade che il percorso di un detenuto, per quanti sacrifici possa fare, per quanto possa penare, non sarà mai acqua che disseterà.
Lo Stato si deve attivare anche in questo senso, affinché anche la vittima sia sensibile a quello che è il percorso di un detenuto. Perché il male intrappola, e bisogna da questa trappola liberarsi. E non intrappola solo il detenuto, nel dispiacere del crimine commesso e nel temere di essere giudicato a vita.
Intrappola anche chi ha sofferto e che è, anche a distanza di vent’anni, poco sensibile al destino del detenuto perché non ha la minima rappresentazione che la persona che si sta continuando a punire non è più la stessa del tempo che fu. Il Male a mio avviso non va combattuto, va isolato.
Perché se lo combattiamo rischiamo di essere vittime, noi stessi, della forma e dell’animo del male che vogliamo combattere. Aiutare il cambiamento della persona e del suo modo di pensare e di agire che lo ha portato a sbagliare, questo può disarmare quel male, perché il male è nell’azione, non nella persona.
Se noi riusciamo a guardare le persone con gli occhi del cuore e non con gli occhi della mente, ecco che, forse, si aprono degli scenari che neanche pensavamo. Ho sentito che si stanno procacciando nuovi istituti carcerari e se hanno già il filo spinato ben vengano. Io credo che la struttura, il vero telaio di un carcere è il personale e i detenuti che lo abitano.
Qui dentro abbiamo tanta buona materia prima. Invece di pensare di costruire nuove carceri, chissà dove, chissà quando, abbiamo qui e ora la possibilità di ricostruire nuove vite. Allora sì, possiamo dire di essere persone più evolute e tendenti al bene. Allora sì, possiamo dire di essere persone più vicine a Dio. Allora sì, possiamo dire di essere sempre più esseri umani.
*Ergastolano, sintesi dell’intervento al X Congresso di Nessuno tocchi Caino