Il rapporto dell'Inapp
Salari, pil e lavoro: Meloni ultima in Europa
Stipendi fermi al ‘91 rispetto a fronte di un aumento medio del 32,5% nei Paesi Ocse, tasso di occupazione sotto di 10 punti rispetto alla media Ue, giovani e donne abbandonati.
Editoriali - di Cesare Damiano
Si sta sviluppando un ampio dibattito circa le verità e le bugie pronunciate da Giorgia Meloni nel corso della sua conferenza stampa.
Per fornire una risposta seria al quesito ancora una volta abbiamo scelto un solo argomento-chiave, il mercato del lavoro, sul quale non sono mancati, da parte della presidente del Consiglio, commenti acriticamente entusiastici circa i risultati conseguiti dal Governo che sono, per noi, poco convincenti.
Per non svolgere un’analisi solamente di parte, ci siamo basati sui dati elaborati dall’Inapp. L’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (ex Isfol) è un Ente di ricerca che fa capo al Ministero del Lavoro e si occupa di studiare e valutare le politiche relative al mercato del lavoro.
L’Istituto produce un Rapporto annuale che è un valido strumento di informazione per tutti coloro che si occupano di questi argomenti. La sintesi del primo capitolo del nuovo Rapporto “2023”, intitolato “Il mercato del lavoro in Italia: evidenze per ripensare le politiche del lavoro”, ci offre un valido sommario dei temi sui quali ci si dovrà concentrare nel corso del difficile 2024.
Il testo ci spiega che le conseguenze dei grandi eventi recenti, come la guerra russa contro l’Ucraina e la pesante crescita dei prezzi “stanno avendo effetti sia sull’evoluzione dei salari reali che sui consumi. Tali conseguenze necessitano di un intervento da parte degli attori politici nell’ottica di un ripensamento delle politiche del lavoro”.
Il quadro macroeconomico mette in evidenza come l’Italia “sopporti una forte riduzione del potere d’acquisto e un modello di sviluppo condotto dai profitti piuttosto che dai salari”.
“Le evidenze circa il funzionamento del mercato del lavoro italiano – spiega l’introduzione – confermano la stagnazione salariale e la contenuta produttività del lavoro, due caratteristiche oramai strutturali dell’economia italiana che neppure la contrattazione di secondo livello sembra riuscire a far ripartire anche a causa della sua scarsa diffusione tra le imprese.”
Produttività, salari reali, natura delle imprese: tre grandi questioni
E queste sono le questioni centrali del lavoro in Italia. Nel nostro Paese i salari reali sono di fatto fermi al 1991, con un’impalpabile crescita dell’1% tra quell’anno e il 2022. Nello stesso periodo la crescita media delle retribuzioni nell’area Ocse è stata del 32,5%.
Un divario analogo si presenta per la produttività del lavoro. Infatti, spiega il Rapporto “a partire dalla seconda metà degli anni Novanta la crescita della produttività è stata di gran lunga inferiore rispetto ai Paesi del G7, segnando un divario massimo nel 2021 pari al 25,5%”.
L’incremento del Pil per ora lavorata in Italia si assesta, tra il 1991 e il 2022, intorno allo 0,2% mentre nell’area del G7 supera largamente lo 0,4%. A questo punto il Rapporto fa riferimento al wage setting, ossia al processo attraverso il quale i salari vengono determinati all’interno di un’economia, in particolare attraverso la contrattazione collettiva o le pratiche di fissazione dei salari da parte delle imprese o del legislatore.
Osserva il Rapporto che “negli anni Novanta, inoltre, si spezza anche quel legame tra salari e produttività del lavoro che aveva caratterizzato il nostro sistema economico fino ad allora. La stagnazione dei salari e la dinamica contenuta della produttività […] possono essere determinate da innumerevoli cause; tra queste vi sono determinanti che attengono agli istituti del mercato del lavoro e in particolare al modello di wage setting italiano […] Com’è noto il meccanismo di negoziazione dei salari, fin dal Protocollo del 1993, prevede due livelli negoziali specializzati e non sovrapposti con istituti diversi e non ripetitivi. Mentre al primo livello (Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro) spetta di stabilire i minimi retributivi, nel secondo (aziendale o territoriale) viene contrattato il salario di risultato legato a incrementi di produttività, di qualità e di altri elementi di competitività. Il Governo, anche a seguito di diverse sollecitazioni da parte delle istituzioni europee, ha cercato di stimolare il radicamento della contrattazione di secondo livello incentivando il ricorso ai premi di risultato o premi di produttività (PdR) tramite agevolazioni fiscali”.
Con le leggi di Bilancio per il 2016 e il 2017 “il legislatore reintroduce, a titolo definitivo dopo una fase sperimentale, la tassazione agevolata dei premi di produttività concordati nella contrattazione di secondo livello, cui viene riconosciuta l’imposta sostitutiva del 10%”. La legge di Bilancio 2022 ha potenziato ulteriormente tale misura dimezzando al 5% l’aliquota fiscale.
Ma qual è l’efficacia di tale sistema? Per “verificare il grado e le caratteristiche di radicamento dei due livelli di contrattazione”, in mancanza di statistiche ufficiali sul tema, il Rapporto fa riferimento a due dataset sui premi di risultato. Il primo è composto dai dati detenuti dal Mef nell’archivio “Dichiarazione dei redditi”, il quale indica “un utilizzo effettivo dei premi di risultato molto limitato, che interessa solo il 9% dei lavoratori dipendenti”.
Tra l’altro, “la quota dei contribuenti con PdR era già in calo a partire dal 2019, quindi già in fase pre-pandemica, circostanza che si è poi accentuata a causa delle misure di contenimento del Covid-19”.
“Una prima caratteristica distributiva dei PdR – osserva l’Inapp – è che il 74% si concentra nelle classi di reddito che vanno da 20 mila euro a 50 mila euro, quindi prevalentemente contribuenti di medio reddito.”
In merito alla distribuzione territoriale dei lavoratori che hanno fruito del salario accessorio legato agli incrementi produttivi, essa “segna forti polarizzazioni a discapito delle regioni del Sud. Si passa da un’incidenza massima del 13% in Piemonte ed Emilia-Romagna a una minima del 4% in Calabria, del 5% in Sicilia e Sardegna, del 6% in Campania e Puglia”.
Da notare quanto, in base a tale dato geografico, sia grottesca l’idea circolata in ambito governativo, di reintrodurre le gabbie salariali. L’altro dataset analizzato dall’Inapp è l’archivio digitale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che raccoglie le schede di conformità dei contratti di secondo livello depositati per attivare il bonus fiscale.
L’analisi dei dati mette in evidenza “due ulteriori e importanti asimmetrie distributive oltre a quella territoriale già segnalata, in particolare quella per dimensione aziendale e quella per settore produttivo”.
Ebbene, “la capacità di coinvolgimento della contrattazione di secondo livello, misurata in termini di dipendenti beneficiari della misura di detassazione, è massima nelle medie aziende e più bassa nelle micro-aziende”.
Il che, per un Paese il cui tessuto produttivo è fatto in larga parte di piccole aziende è un fatto di per sé allarmante. Tant’è che l’analisi della distribuzione del premio di risultato per settore produttivo conferma, in qualche modo, tale problema.
Infatti, “il settore della fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata, registra la più alta propensione al coinvolgimento di dipendenti nella contrattazione di secondo livello, con una copertura del 40,5%, mentre il settore agricoltura, silvicoltura e pesca presenta la copertura più bassa, pari allo 0,1%”.
Vale a dire che la contrattazione di secondo livello si adatta in modo efficace a imprese della dimensione delle grandi multiutility. La questione salariale, dunque, non è risolvibile continuando a ignorare l’urgenza delle assolutamente trascurate politiche industriali – più che mai in un’epoca di grandi transizioni come questa, si veda il caso Ilva. Politiche che portano con sé la questione della produttività e l’aggiornamento delle politiche contrattuali.
Un lavoro in cerca di qualità*
Qual è il quadro del mercato del lavoro in questo contesto? “La componente femminile e quella dei trentenni scontano ancora ritardi nel tasso di occupazione rispetto alle rispettive controparti, in un mercato in cui si osserva un continuo ricorso a forme atipiche di lavoro e con un costante aumento del numero di lavoratori che, dopo essersi dimessi volontariamente, sono alla ricerca di una nuova occupazione. Tale evidenza sembra contraddire l’ipotesi della grande ‘fuga dal lavoro’ a favore invece della necessità/volontà di ricollocarsi in un lavoro di buona qualità”.
La qualità del lavoro è un tema che torna in primo piano, non solo come fonte di soddisfazione, ma molto concretamente per quanto riguarda salario, tipo di contratto, luogo e orario di lavoro.
In Italia, nell’analisi dell’Istituto, per quanto riguarda la qualità del lavoro è ancora radicato un approccio tradizionale. In conclusione “una maggiore attenzione ad essa potrebbe implicare non solo un aumento della motivazione dei lavoratori, ma anche un miglioramento delle performance aziendali”.
Ecco, dunque, un tema sul quale concentrarsi nel nuovo anno. Consapevoli che la complicazione del nostro Sistema-Paese, la lentezza della politica nell’approccio alla realtà e nello sviluppo di politiche aggiornate, la necessità di attualizzare le forme di contrattazione collettiva di primo e secondo livello, rappresentano ostacoli e sfide tutt’altro che indifferenti.
La narrazione del Governo
A fronte di questa analisi, puntuale e approfondita, il Governo sceglie la strada di una rappresentazione enfatica dei risultati occupazionali e del mercato del lavoro.
Si insiste molto (vedi la conferenza stampa di Giorgia Meloni) sul miglioramento del tasso di occupazione, fenomeno già in atto a partire dal 2021 e continuato lo scorso anno, e sul fatto che siamo di fronte a un record storico: un dato incontestabile.
Appena due giorni fa l’ultimo bollettino dell’Istat ha confermato questo successo che continua: a novembre 2023 il saldo occupazionale su base annua segnava un +520 lavoratori e un tasso di occupazione al 61,8%.
Quello che si dimentica di dire è che questo trend è in atto in tutti i Paesi europei. Il paradosso che si è prodotto è che, crescendo, siamo passati all’ultimo posto superati dalla Grecia che ha avuto una performance molto migliore della nostra. Dunque, non è tutto oro quello che riluce, direbbe il saggio.
Inoltre, si omette di ricordare che l’Italia, come tasso di occupazione, è di 9-10 punti percentuali al di sotto della media europea e di 18 punti sotto la Germania e di oltre 20 rispetto ai Paesi del Nord Europa: e questo vale anche per l’occupazione femminile, anch’essa all’ultimo posto.
Tutto questo ci conferma circa la necessità di studiare in modo approfondito i fenomeni sociali, di inserirli nel contesto europeo e globale e di non accontentarsi di spilluzzicare il risultato più favorevole per fare un po’ di propaganda a proprio favore. Quando parliamo di occupazione, poi, non basta il dato quantitativo, sul quale ci siamo soffermati, bisogna indagarne la qualità.
E allora torniamo al Rapporto Inapp 2023: è interessante la tabella che illustra i “Rapporti di lavoro attivati e cessati per tipologia di contratto” dal 2018 al 2022. Mancano, ovviamente, i dati del 2023 che non si discostano, per i mesi parzialmente rilevati, dal trend dell’anno precedente.
Nel 2022 si sono attivati 12 milioni e 573 mila posti di lavoro e sono cessati 12 milioni e 159 mila: il saldo è stato di +414 mila, andamento positivo proseguito e migliorato nel 2023, come certificato da tutte le fonti: Istat, Inps e Censis.
Di grande interesse è la composizione qualitativa: il 15% delle assunzioni 2022 è rappresentato dal tempo indeterminato, il 68,1% dal tempo determinato, il 3,3% dall’apprendistato, il 2,9% da contratti di collaborazione e il 9,8% da altro (contratto di formazione, di inserimento, di agenzia, ecc).
A grandi linee, stesso andamento nelle cessazioni. Al di là di tutte le narrazioni ottimistiche, nei flussi (che non vanno confusi con lo stock occupazionale che vede ovviamente prevalere il tempo indeterminato), la parte del leone la fa ancora una volta il contratto a termine.
Se poi scendiamo nel dettaglio, “il carattere discontinuo dei contratti nel nostro mercato del lavoro è confermato dalla durata dei contratti cessati”, che arrivano, fino a 30 giorni, nel 33% dei casi, oltre 4 milioni su 12. Così suddivisi: fino a 1 giorno 1 milione e 530 mila; da 2 a 3 giorni 621 mila; da 4 a 30 giorni 1 milione e 947 mila.
La conclusione del Rapporto è molto chiara: “… si deve tenere conto del fatto che sono dati di flusso nei quali un peso predominante è rivestito dai rapporti di lavoro molto brevi”. C’è dunque materia su cui discutere, per maggioranza e opposizione.
Tenendo anche conto che le previsioni del Governo sulla crescita economica del 2024 sono ancora ferme all’1,2%, quando i principali osservatori, a partire da quello di Bankitalia, indicano la metà. Non si tratta di una differenza di poco conto che cambia tutto il quadro delle previsioni, differenza sulla quale la Giorgia nazionale ha sorvolato.