La discussione sull’abrogazione del reato d’abuso d’ufficio si protrae con una certa stanchezza almeno dal 2020, da quando cioè il secondo governo a trazione giallorossa – addirittura con un decreto legge – ebbe a riscrivere pesantemente la norma cancellandone praticamente la portata e azzerandone l’applicazione.
Certo gli amministratori locali si lamentano, ritengono la modifica insufficiente, ma c’è un po’ di ammuina in questo atteggiamento; lo sanno tutti che dal 2020 le chance di condanna sono ridotte al lumicino e che tante Procure mandano direttamente al macero la stragrande maggioranza delle denunce senza stare neanche a perder tempo in indagini del tutto superflue.
I numeri delle condanne che circolano in questi giorni per giustificare la tesi del colpo di spugna si riferiscono al “vecchio” testo dell’articolo 323 del 1990, per quello del 2020 mancano dati precisi se non quelli, appunto, delle richieste di archiviazione a pioggia.
In verità, lo sanno tutti e tutti tacciono facendo finta di ignorare la portata della riforma del 2020 e per ragioni del tutto comprensibili. Si profila un corpo a corpo ravvicinato e occorre serrare i ranghi, chiudere la bocca e indossare l’elmetto.
Quando soffiano venti di guerra è prudente acquartierarsi e mettere sacchi di sabbia alle finestre, come cantava un poeta. Il professor Stortoni, in una notevole intervista pubblicata su Il Foglio dell’11 gennaio, ha indicato pregi e difetti di una abrogazione totale del reato smascherando talune delle innocenti bugie che il fronte favorevole alla conservazione snocciola in interviste e dibattiti televisivi.
Punto primo: l’abolizione del reato anche in caso di mancata astensione del pubblico dipendente dall’adozione di un provvedimento o un atto che realizza un interesse proprio o di un prossimo congiunto o danneggia un avversario è intollerabile; non si tratta, in questo caso, di consentire l’esercizio della discrezionalità amministrativa o di incidere su scelte latamente politiche dell’amministrazione.
L’abrogazione, per capire, giova finanche ai giudici che potrebbero tranquillamente, ossia senza incorrere in alcun reato, condannare i propri avversari o assolvere i propri amici.
A occhio e croce un’aberrazione che ha ben colto il dottor Eugenio Albamonte in un’intervista di qualche giorno or sono, spiegando che a profittare dell’abrogazione non sono solo gli amministratori locali, ma tutti coloro che esercitano funzioni pubbliche, giudici compresi di ogni giurisdizione che pur sono tenuti all’imparzialità e alla terzietà delle proprie funzioni.
Una vera e propria eterogenesi dei fini se si pensa che tutto l’affaire Palamara che tanto ha indignato la politica e la pubblica opinione ruota intorno a una girandola di favori per gli amici e di punizioni per i nemici di un certo establishment.
Punto secondo: l’articolo 323, si dice, è il modo con cui il cittadino indifeso reagisce di fronte alla prevaricazione di una pubblica amministrazione, come dire, almeno poco limpida se non corrotta e grazie a queste denunce è possibile aprire indagini e scoprire magagne peggiori. La tesi ha un punto di verità.
L’aura di discredito che circonda la politica e, spesso, le amministrazioni locali induce il cittadino a considerarsi vittima di soprusi, angherie, ingiustizie, (s)favoritismi. È innegabile che questo circuito di percezione è stato alimentato, almeno da Tangentopoli in poi, dalle stesse indagini, dal loro clamore mediatico, dall’esaltazione del tintinnio delle manette.
Mettiamo da parte, per il momento, la silente, fallimentare conclusione di tante di queste investigazioni e consideriamone gli effetti su larga scala. Questa “corruzione percepita” (orrenda endiadi, ma da decenni dilagante anche nella saggistica) ha determinato un’espansione illimitata della domanda di giustizia da parte dei cittadini che si ritengono vessati dalla pubblica amministrazione.
Imprenditori, commercianti, semplici utenti che hanno “fiutato” che qualcosa non ha funzionato per il verso giusto nelle procedure amministrative che li hanno riguardati; che spesso si sono imbevuti del chiacchiericcio che circonda certi politici e certi funzionari, che insomma hanno “percepito” che c’è del marcio non solo in Danimarca, sono i primi che redigono esposti e denunce.
Nulla di evidente, ovvio, nessuna prova di corruzioni o concussioni; in questi casi una denuncia per abuso d’ufficio assomiglia a un grido di dolore e, anche talvolta, a un warning che si lancia ai presunti reprobi: guardate che ho capito e state attenti.
Così l’indagine, le perquisizioni, gli interrogatori, i sequestri sono all’unisono sia il rimedio alla frustrazione per l’ingiustizia che si ritiene o si suppone patita sia un messaggio trasversale all’impudente funzionario.
Molti procuratori, con difficoltà e pazienza, arginano questa prassi distorta che tende a trasformare le procure della Repubblica in una sorta di minaccioso ufficio reclami, cestinando anzitempo tutti questi esposti alimentando, tuttavia, una raffica di opposizioni all’archiviazione che ingolfavano gli uffici del gip di tutta Italia che ottengono almeno il fine di portare il funzionario in udienza davanti a un giudice in qualità di indagato e con il proprio difensore. Soddisfazione non modesta in qualche caso.
Punto terzo: posto che si chiacchiera da decenni di una riforma della pubblica amministrazione, di conferire trasparenza e snellezza ai procedimenti amministrativi, di sottrarre i cittadini al giogo di mille scartoffie (in cui si annida di tutto), eliminare l’abuso d’ufficio avrà innanzitutto un pesante contraccolpo sociale, si potrebbe dire.
Insegnanti saltati nelle graduatorie, imprenditori soccombenti nelle gare, commercianti rimasti senza licenza, disoccupati esclusi dalle assunzioni e migliaia e migliaia di altre persone vedranno cadere anche questa estrema arma di protesta e di difesa.
Quanti commiserano giustamente la propria marginalità e recriminano sulla propria fragilità rispetto al potere non avranno altra strada che quella di una costosa giurisdizione amministrativa con i suoi tempi, con i suoi limitatissimi poteri di accertamento.
È un problema serio che si annida dentro una nebulosa più grande, il tutto avvolto in un ginepraio inestricabile. Si è immaginato di poter affidare alla giustizia penale un compito di sorveglianza attiva sulla pubblica amministrazione e sulla politica e, soprattutto, una funzione di controllo diffuso, a strascico, sui funzionari pubblici.
Il reato d’abuso, per i suoi contorni e la sua persistente ampiezza, è stato l’unico strumento che si è prestato a questa funzione; nessuno si azzarderebbe a denunciare qualcuno di corruzione o di concussione in mancanza di prove evidenti.
Caduto il mezzo, il fine resta privo di armi, nudo, impotente. È una valutazione tutta politica che, però, non può essere messa da parte senza una consapevolezza piena di quel che è accaduto.
Si è dato ai giudici un compito improprio e immane; le toghe hanno agito per come potevano in forza di una sensibilità alle ragioni dei deboli che costituisce l’elemento costitutivo della giustizia; lo strumento si è, inevitabilmente, prestato ad abusi e forzature conferendo ai magistrati un controllo sulla legalità amministrativa ai limiti della violazione del principio di separazione dei poteri.
Il vuoto lasciato dall’abrogazione dell’abuso d’ufficio dovrebbe essere immediatamente colmato con misure compensative sul versante amministrativo.
Sia un garante locale, sia una class action amministrativa, sia un tutor, sia l’efficientamento della giustizia tributaria e delle authority, sia un rafforzamento della giustizia contabile (invece pur colpita e contenuta di questi tempi), sia l’ombudsman ovvero un difensore civico di matrice anglosassone, insomma bisognerebbe pur trovarlo un modo per fronteggiare la caduta di tutela che i cittadini, in primo luogo, potrebbero “percepire” con l’abrogazione pura e semplice dell’abuso d’ufficio.
Senza una riforma radicale ed estrema della pubblica amministrazione che mitighi il costo sociale (prima che giuridico) dell’abrogazione, la soppressione del reato rischia di produrre l’effetto di un “tana libera tutti” per i funzionari pubblici meno onesti e trasparenti e di accrescere la sfiducia e il distacco di tanti cittadini dalla politica e dalle sue istituzioni concepite come un fortino ormai del tutto inespugnabile.
È vero, il reato produce scarsi risultati e provoca molti danni, ma da qualche decennio tanta gente ha fatto ricorso allo strumento per le finalità, in parte oblique e distorte, di cui si è detto ed è questa, a occhio e croce, la sostanza degli argomenti che sono proposti da chi si oppone a una pura e semplice abrogazione. Alla politica trasformare l’arroccamento in una casa di vetro e accordare adeguate misure compensative e di tutela diffusa.