Nella vita intellettuale di Norberto Bobbio un posto di primo piano è senza dubbio occupato dal dibattito serrato con il Pci. Fu lui stesso a menzionare una lettera scritta a mano che ricevette neppure quarantenne, quando era un giovane accademico non ancora definitivamente affermatosi nella scena pubblica.
In essa il mittente, il filosofo Galvano della Volpe, si mostrava scettico sul primato storicistico-attualistico della “prassi” e rivelava di aver finito la traduzione di un testo che “sarà una grande sorpresa per tutti”.
L’opera, naturalmente, era la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico di Marx, che della Volpe mise al centro della rinascita del marxismo teorico e impose anche nella cultura internazionale.
Quando nel 1946 uscì La libertà comunista, della Volpe ne inviò in giro solo tre copie, come omaggio dell’autore: la prima ad Antonio Banfi, un grande filosofo approdato al Pci da posizioni husserliane e di razionalismo critico; la seconda a Giulio Preti, a lungo osteggiato nell’accademia e di cui della Volpe aveva invece una spiccata considerazione perché riteneva “diverse e superiori le sue conclusioni” rispetto all’approccio di Carnap e del neopositivismo logico; la terza e ultima, per l’appunto, a Norberto Bobbio.
Passarono solo alcuni anni dalla missiva in cui della Volpe sollecitava un giudizio su alcune questioni teoriche, e proprio con Bobbio si sviluppò un importante confronto ideale. Ricorda il filosofo torinese che “della Volpe fu il mio più accanito avversario in una vecchia amichevole polemica su comunismo e diritti di libertà”.
La prima risposta di della Volpe alle suggestioni bobbiane, le quali spingevano verso il costituzionalismo liberale come una delle eredità positive per il movimento operaio, lascia in effetti l’impressione che ne ricavò Alberto Asor Rosa, e cioè di una posizione ai limiti dello scolastico che non afferrava le ricadute politiche più generali del dissidio.
Ci fu, però, un secondo momento del dialogo che stupì molto Bobbio, allorché della Volpe raccolse integralmente nella prospettiva del comunismo le sue istanze liberali, con un richiamo a Locke, a Kant, al principio di legalità e al garantismo come canoni insurrogabili.
Oltre trent’anni dopo, Bobbio, rievocando la sua lontana disputa con della Volpe, rileverà che nel 1957 il filosofo marxista ebbe un significativo ripensamento, che lo indusse al recupero dei princìpi del liberalismo e dello Stato di diritto in quanto, nella strategia di una democrazia post-borghese, “bisognava risalire non soltanto a Rousseau ma addirittura a Locke”.
I conti teorici tra comunismo e libertà formali sembravano già chiusi con le aperture di della Volpe, rintracciabili negli scritti della seconda metà degli anni Cinquanta ed influenzate chiaramente dalle sollecitazioni del filosofo torinese.
A indurre Bobbio nel 1976 a impugnare di nuovo la penna, per infilzare alcuni intellettuali di provenienza comunista, furono essenzialmente due considerazioni: in primo luogo, la crescita straordinaria del Pci, che all’apice del consenso e della propria forza organizzativa evidenziava la carenza di una moderna teoria dello Stato; infine, la prevalenza nel Pci di sensibilità filosofiche post-sessantottine le quali premevano per “sopprimere la politica come tale” oppure in direzione del decisionismo schmittiano, che rigettava le forme e le procedure della liberaldemocrazia denunciate come tentativi di neutralizzazione del conflitto.
A mettere le cose a posto fu Berlinguer. Nel 1977, con la formula della “democrazia come valore universale”, egli troncò le residuali imprecisioni concettuali sugli “universali procedurali della democrazia” che sopravvivano nel mondo della cultura comunista, non certo nei documenti ufficiali o nel corpo dirigente del partito.
Bobbio ha attivato il suo pungolo teorico su molteplici campi, basti pensare alle riflessioni sull’originalità del concetto di “società civile” in Gramsci rispetto alla nozione consegnata dai classici del marxismo. Comunque egli, oltre che un socialista liberale, attento agli ideali dell’azionismo e, da ultimo, alle categorie di Rawls, era anche un teorico del realismo politico.
Intuiva che in politica contano le cose più che i nomi. E la “cosa” era in Italia la grande organizzazione, con il radicamento popolare e di classe, inventata dai comunisti. Rispetto a essa, la cultura liberale avrebbe potuto esercitare una funzione di stimolo, di ricognizione critica nella battaglia delle idee.
La velleità di sostituire la “cosa” della sinistra storica con la “carovana”, per accarezzare un aleatorio “partito radicale di massa”, ha infatti conquistato i confusi gestori della Bolognina, di certo non Norberto Bobbio. Non è un caso che il filosofo torinese, quando i post-comunisti, in preda a una incomprensibile euforia, brindavano per la caduta del Muro e per la fine del secolo breve, non si accodasse ai festeggiamenti, ritenendoli fuori luogo.
Anzi, rammentava allora, soprattutto a chi dimenticava di cogliere quello che Weber chiamava il tragico nella politica, che la sconfitta del comunismo non inaugurava affatto il tempo gaudioso della rivincita del socialismo liberale. Il “nome”, rimasto un minoritario credo delle élite colte, non trionfava sulla “cosa”, che pure aveva affascinato le masse.
Prendeva l’avvio, al contrario, una fase per certi aspetti drammatica. Le contraddizioni sociali, rintracciabili nel cuore del capitalismo, rimanevano del tutto irrisolte.
Esse, per giunta, apparivano aggravate a seguito della ritirata di soggetti e ideologie in grado di mobilitare gli oppressi, di aprire orizzonti di senso e di liberazione nelle pieghe della tarda modernità.
I vincitori sarebbero stati ancora più inflessibili nella loro volontà di potenza adesso che gli sconfitti vagavano senza una speranza e con le belle bandiere ammainate.
Il filosofo neo-illuminista, scomparso il 9 gennaio di vent’anni fa, aveva compreso che la fine dei partiti, incluso l’inopinato suicidio del Pci, spalancava uno spaventoso vuoto, con la conseguenza di una regressione storica in Italia.
Nella proliferazione di modelli organizzativi ambigui, che Bobbio per primo cominciò a denominare “partiti personali”, con la diffusione di un leaderismo sconclusionato e senza identità, finiva la Repubblica antifascista, e con essa i suoi progetti di emancipazione.
Vedeva così la luce un laboratorio decadente, analogo a quello confuso e inquietante di inizio secolo, che Bobbio aveva indagato magistralmente nel suo libro dedicato al Profilo ideologico del ‘900 italiano.