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Intervista a Pietro Folena: “Nel Pci ho imparato a soffrire per le sofferenze degli altri”

Intervista a Pietro Folena: “Nel Pci ho imparato a soffrire per le sofferenze degli altri”

Nella FGCI è entrato giovanissimo, in una città a quei tempi politicamente “esplosiva”, Padova. Della FGCI è stato segretario nazionale dal 1985 al 1988. Del PCI prima e del PDS poi è stato segretario regionale della Sicilia.

Nel 1988 è coordinatore nazionale dei Democratici di Sinistra durante la segreteria di Walter Veltroni. Più volte parlamentare, oggi è presidente della società Artnews srl, che edita il quotidiano on-line di arte e di mostre Artemagazine, di cui è direttore editoriale. Una vita a sinistra. Con passione e una inappagata curiosità intellettuale. La parola a Pietro Folena.

“Quella spinta che voleva cambiare il mondo”. È molto più del titolo di “Allonsanfàn”, l’incontro del 10 febbraio a Firenze “delle ragazze e dei ragazzi della Federazione Giovane Comunista Italiana degli anni ’70-‘80”. Di quella FGCI sei stato fin da giovanissimo militante e poi Segretario nazionale. Cosa è stata quella “spinta che voleva cambiare il mondo” e che ne è rimasto oggi?
Da qualche anno si sono susseguiti degli incontri tra i “figiciotti” degli anni ‘80. Chi oggi, magari con mal di pancia, nel PD, chi in altre forze della sinistra, o nel M5S, la maggioranza senza partito, indipendenti, come il sottoscritto. Progressivamente, con l’incedere della crisi politica e culturale della sinistra, ho sentito in questi incontri crescere una domanda di politica, di pensiero e di azione, che cerchi anche in quelle esperienze passate, e per molti versi superate e irripetibili, ragioni per l’oggi. L’ultimo di quegli incontri, Amunì FGCI, lo scorso anno a Cinisi, è stato molto coinvolgente e, fra le altre iniziative, ha gemmato Allosanfan, che allarga il suo raggio di riflessione al quindicennio tra il 1975 e lo scioglimento del PCI nel 1989. Si tratta prima di tutto di un necessario recupero di memoria: fotografie, volantini, ciclostilati, filmati, documenti, testimonianze orali che raccontano una bella storia. Stiamo lavorando, grazie ai compagni siciliani, ad un archivio, alla pubblicazione di quaderni, ad un’associazione. In quella storia ci sono aspetti da ricordare con affetto ma anche con la necessaria consapevolezza di quanto erano datati. Guai a pensare che le soluzioni di allora, le modalità organizzative e comunicative, e anche la visione del mondo valgano per oggi. Ma non c’è dubbio, caro Umberto -e tu lo sai perché di quella FGCI degli anni ‘80 sei stato partecipe, quando il PdUP di Lucio Magri e di Luciana Castellina confluì nel PCI- che quella spinta a cambiare il mondo, raccolta dall’eredità dell’ultimo Enrico Berlinguer, è stato il cemento morale dell’impegno di quella generazione. Quel mondo di allora, che noi criticavamo e volevamo cambiare, era in realtà molto più equilibrato, anche con la tragica logica della deterrenza nucleare, di quello di oggi. Oggi il mondo va cambiato, ma il paradosso risiede nel fatto che la critica all’assetto disordinato e ingiusto del pianeta è fatta da destra, dal sovranismo, dal nazionalismo, da un nuovo spirito bellico, da ideologie rabbiose che intercettano la sfiducia del popolo, e il centrosinistra liberale sembra arroccato nella difesa di uno status quo insopportabile. La crisi climatica e ambientale, la rivoluzione digitale e la crisi del modello patriarcale e maschilista dell’organizzazione sociale e del potere urlano a gran voce alla sinistra: “svegliati!” Con coraggio bisogna guardare alle trasformazioni e porsi il grande obiettivo di portare le innovazioni tecnologiche, a partire dall’intelligenza artificiale, al servizio della giustizia sociale, della liberazione umana, della salvaguardia della vita sul pianeta, della pace.

Quella FGCI era pacifista, praticava la non violenza e aveva una forte vocazione internazionalista. Tutto archiviato?
In quegli anni, soprattutto nel gorgo del grande movimento pacifista contro l’installazione degli euromissili nucleari a Est e a Ovest, abbiamo costruito una piattaforma che usciva dal vecchio orizzonte del movimento comunista, anche nella sua versione democratica, e che cercava nuove vie per realizzare non solo il miglioramento della condizione di vita degli sfruttati e degli emarginati, ma una piena affermazione della personalità delle donne e degli uomini, impedita dagli assetti del neocapitalismo liberista che suonava da allora i suoi tamburi rumorosi e sinistri. Berlinguer, e con lui poi Alessandro Natta e Aldo Tortorella, ci furono maestri in questo sforzo. Esso tuttavia, dopo quel giugno di quarant’anni fa a Padova (ero lì, su quel palco maledetto) rimase incompiuto, e la storia della sinistra prese un’altra strada. Da un lato quella governista, concependo la propria funzione solo nell’ambito di una lotta di alternanza di governi, e dall’altro quella della fiammella della critica sociale, rimasta testimonianza senza popolo. Non si può negare (ne ho trattato due anni fa nel mio Servirsi del popolo) che nella stagione di governo il centrosinistra abbia ottenuto risultati importanti: ma il nostro campo si è presentato chiuso nella forbice fra la difesa di un vecchio assetto del welfare che non reggeva più e l’ubriacatura liberista, secondo la cui ideologia persino la scuola doveva diventare un’azienda! Questo campo non è stato capace né in Italia né negli altri paesi europei e occidentali, di interpretare la crisi dell’ordine mondiale. Il capitalismo sembrava trionfare, da Ovest alla Russia, e i problemi lasciati irrisolti dopo la guerra fredda -a partire da quello mediorientale- sono rimasti tali. L’unico vero movimento di critica alla globalizzazione ingiusta -quello definito alterglobalista- all’inizio di questo millennio, e che ha mosso un’intera nuova generazione, non ha incontrato una sinistra politica capace di uscire dai vecchi schemi, e poi è scemato. Ma in continuazione assistiamo al nascere di nuove insorgenze -talvolta confuse, talaltra naif, ma tutte vere- che da Friday for Future a Me Too pongono il problema di un radicale cambio di rotta. Della fine del vecchio riformismo. Di un’azione di riforme di struttura -per citare Riccardo Lombardi- e in qualche modo della necessità di una rivoluzione democratica e non violenta dell’attuale assetto.

Dalla FGCI a un impegno politico che ti ha visto protagonista prima nel PCI successivamente in altre forze della sinistra, nel paese e in parlamento. Non ti chiedo un bilancio ma…
Sono molto grato al Partito Comunista Italiano. Io venivo da una famiglia intellettuale borghese, italiana e francese: dai miei genitori ho ricevuto molto. Ma la mia seconda famiglia è stata la FGCI, e il PCI: ho conosciuto il mondo del lavoro, le persone semplici, oggi diremmo il “popolo”, la lotta per emanciparlo e per organizzarlo. Il contrario del populismo, che accarezza e blandisce sentimenti profondi. Il partito -i partiti: anche il PSI, anche la DC- educava quei sentimenti. Trasformava la rabbia in azione collettiva. Combatteva la violenza -pensa cosa fu per noi la lotta al terrorismo rosso, e cosa ha significato, per esempio, il sacrificio dell’operaio Guido Rossa-. Nelle sezioni si leggeva, si faceva cultura, si cresceva insieme. Grazie al PCI mi sono sentito connesso a una storia, a dei sentimenti comuni, ho imparato -io, che venivo da una matrice cristiana- a soffrire per le sofferenze degli altri, e a battermi perché si potesse avere una speranza. Questo è stato il senso della mia esperienza, con gli errori fatti, ma senza mai tradire quei valori e quel bisogno di conoscere, interpretare, trasformare anche questo terribile e intricato mondo, e metterlo al servizio degli esseri umani, del loro benessere, della loro felicità, come disse Berlinguer. Nel primo decennio degli anni 2000, questa ricerca mi ha portato a tentare di esplorare strade nuove. Quando ho verificato di non avere la forza per perseguirle, ho dato vita a un’azione culturale, con l’associazione Metamorfosi, per cercare di prendere il problema da questo punto di vista. Ma oggi, senza dubbio, si sente il bisogno di qualcosa di più. E penso che la nostra generazione -che viene da quella FGCI- debba mettersi a disposizione di quelle generazioni più giovani che realmente si pongono l’obiettivo di promuovere una spinta per cambiare il mondo.

Lotta di classe, una visione ecopacifista della crescita, la difesa dei più indifesi, a cominciare dai migranti che continuano a morire nel Mediterraneo…Una sinistra che non è all’altezza di queste sfide, può ancora definirsi tale?
Sono persuaso che non bisogna avere paura di osare. Occorre davvero fondare una speranza. C’è troppo disfattismo e pessimismo. Ma la speranza non può risiedere nel dibattito sulle candidature alle europee. Il sol dell’avvenire, alla fine del XVIII secolo e nella prima parte del 900, ha mosso parti grandi dell’umanità. Oggi il gigantesco salto tecnologico in atto, di cui l’AI è solo l’ultima espressione, danno l’opportunità di pensare di ridurre l’orario di lavoro, di liberare tempo per la vita, la cultura, gli affetti, di indirizzare al benessere del pianeta e degli esseri umani le nuove conquiste tecnologiche, di superare la società maschilista e patriarcale che ha portato l’umanità al rischio dell’autodistruzione. La speranza si fonda qui: nella possibilità che più sapere per tutte e per tutti fondi un’organizzazione sociale e dei poteri più democratica. Il conflitto con i grandi gruppi del capitalismo digitale, che si candidano a governare in modo autocratico il mondo, è la nuova frontiera della lotta di classe, e coinvolge non solo il lavoratore dipendente, il migrante che vuole un futuro, o l’artigiano e il professionista, ma il cittadino che vuole essere più libero e più felice, e la comunità territoriale che vuole salvaguardare la propria identità. Bisogna ripensare la scuola, il sistema della salute, il ruolo attivo e “saggio” della terza età, il ruolo nuovo delle famiglie, e potrei continuare.

La Palestina dimenticata. Il genocidio di Gaza. Quella FGCI aveva la kefiah nel cuore. E oggi?
Con la Palestina nel cuore fu una campagna che realizzammo negli anni ‘80 con i giovani ebrei, con i pacifisti di ogni parte, fino alla grande catena umana che circondò Gerusalemme nel 1990. Solo ora si capisce, di fronte al genocidio di Hamas del 7 ottobre e a quello deciso da Benjamin Netanyahu dei bambini e dei civili di Gaza negli ultimi tre mesi, cosa abbia significato l’assassinio di Yizthak Rabin e il successivo isolamento di Yasser Arafat. Occorre assolutamente scuotersi dal torpore, e riprendere una forte iniziativa pacifista e universalista, senza preoccuparsi troppo delle campagne mediatiche che si scatenano contro chi non aderisce al nuovo pensiero unico. E questo vale anche per il conflitto in Ucraina, dopo l’aggressione voluta da Putin, perché è ora che tacciano le armi e che la parola torni alla politica e al dialogo.