“Rieccolo”: così scrivevano i giornali quando, dopo eclissi più o meno lunghe, tornava inaspettatamente sulla scena politica. “Cavallo di razza” era invece la definizione che gli riservavano i più benevoli per contrapporlo – insieme a Moro – ai “grigi” dorotei o al “pragmatico” Andreotti.
Amintore Fanfani – di cui ricorre quest’anno il venticinquesimo anniversario dalla morte – è stato un protagonista assoluto della politica italiana per molti decenni.
Controverso e discusso, di lui si ricorda soprattutto l’accesa campagna – esattamente cinquant’anni fa – per il Sì al referendum sul divorzio, durante la quale mise in guardia le donne italiane, specie meridionali, che con il divorzio molte di loro sarebbero state lasciate dai mariti.
Il referendum si concluse con il 59,1% di No, anche con largo concorso del voto femminile e meridionale. L’Italia era cambiata, si disse, e Fanfani non l’aveva capito. Quel 59,1% di No al divorzio sembrò manifestare il tramonto definitivo di un’Italia tradizionale e contadina.
Se erano scomparse le lucciole, come scriveva Pasolini, se, cioè, avevano ormai vinto l’industrializzazione e la modernizzazione, non c’era più bisogno della Dc.
Ma Fanfani non era uomo da scoraggiarsi e, dopo la peggiore sconfitta della Dc in tutta la sua storia, rimase ancora per più di un anno alla guida del partito.
Non era facile sostituirlo e non solo per le sue indubbie capacità e per la sua forte determinazione: a tenerlo in sella contribuirono anche i suoi più accesi avversari.
Facendo leva sull’innaturale saldatura in tema di divorzio tra la Dc e un partito estraneo ai fondamenti democratici dell’Italia repubblicana, il Msi, ci fu chi parlò di “fanfascismo”.
Radicali, socialisti ed extraparlamentari sostennero che il referendum sanciva il superamento della Dc e che questo partito era troppo arretrato per governare ancora l’Italia (sono i temi che animarono la cosiddetta “questione democristiana”).
La messa in discussione dell’esistenza stessa del partito compattò il gruppo dirigente democristiano e fece passare in secondo piano gli errori del segretario. Anche perché era una minoranza di italiani a pensarla così.
Il vero pericolo per la Dc stava diventando in quegli anni la concorrenza del Pci, che però con il compromesso storico di Berlinguer puntava a governare con la “balena bianca” piuttosto che sostituirla. A Fanfani subentrò Zaccagnini solo dopo il “sorpasso” comunista sulla Democrazia cristiana nelle amministrative nel 1975.
Ma c’è stato anche un altro Fanfani, non “fanfascista” e neanche conservatore, che ha portato avanti quello che si potrebbe chiamare il programma della Costituzione: la rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Lo stesso risultato del referendum sul divorzio si deve anche all’azione svolta precedentemente da questo partito e dallo stesso Fanfani. Se l’Italia è cambiata nel trentennio prima del 1974 come non era mai accaduto nella sua storia precedente, è stato infatti anche per la classe dirigente di cui il leader toscano è stato un esponente di punta.
Ovviamente, il “miracolo italiano” si deve soprattutto ad eccezionali contingenze internazionali e a uno sviluppo che ci sarebbe stato probabilmente anche con un’altra classe dirigente.
Ma quella che ha governato l’Italia dagli anni Quaranta agli anni Settanta ha contribuito al cambiamento, cercando di favorire – “senza avventure”, come si diceva allora – l’inclusione dei marginali e la redistribuzione della ricchezza. Anche se gli effetti della sua azione ne hanno contraddetto in parte convinzioni e speranze, come nel caso del divorzio.
Si devono a Fanfani un grande piano di edilizia popolare, le “case Fanfani”, per permettere anche ai muratori di diventarne proprietari, un contributo importante alla riforma agraria, la creazione di una grande industria pubblica, un impegno senza precedenti per il Mezzogiorno, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, l’introduzione della scuola media unica. Inesauribile.
E’ stato anche tra i promotori dell’Autostrada del Sole (con ogni probabilità, fu lui ad imporre la “curva” per farla passare per Arezzo). Alcune delle cose che ha fatto sono ben riuscite, altre discutibili, altre decisamente sbagliate, com’è ovvio che sia. Ma molte sono state di una rilevanza non comune.
Fanfani ha cambiato radicalmente la struttura della Democrazia cristiana, trasformandola da grande partito di opinione di stampo liberale in un moderno partito di massa radicato nel territorio e organizzato centralisticamente, sul modello del Pci.
Ha creato così le premesse per rendere il partito autonomo da ingerenze clericali e per farne il luogo di formazione di una nuova classe dirigente proveniente dalle periferie. Ma è soprattutto nell’azione di governo che ha investito le sue energie.
Professore universitario, esperto di economia, ha portato nella sua attività politica il gusto di affrontare le questioni e di risolvere i problemi. E’ un gusto che Fanfani trasmetteva a chi gli era vicino.
Si deve a una fanfaniana come Franca Falcucci una riforma che ha pienamente inserito i disabili nella scuola e prodotto una legislazione che, su questo terreno, è ancora all’avanguardia in Europa.
Per anni a seguire, non cancellata, è rimasta sul muro del ministero a viale Trastevere la critica politica dei razzisti inconsapevoli dell’epoca: “Falcucci cicciona”.
Ci sono cose che di Fanfani si sanno poco, ma che spiegano più di altre. Fu pittore di un certo talento, che organizzò esposizioni e vinse premi. Anche Churchill lo fu. Caratteracci tutti e due. I suoi Diari fanno emergere una riflessione sull’arte contemporanea di inatteso spessore.
Ancora meno noto è che non avrebbe voluto intraprendere la strada della politica, almeno, non nella Dc. Costretto a rifugiarsi in Svizzera negli ultimi anni della guerra, fu raggiunto da notizie sulla fondazione di questo partito.
Non gli piaceva: fondato da De Gasperi e da altri ex popolari gli appariva lontano dalle idee che con padre Gemelli aveva coltivato in Università Cattolica tra le due guerre.
Qualche anno dopo, benché sollecitato da più parti ad intraprendere l’attività politica, decise di lasciare Roma per tornare a Milano e riprendere l’insegnamento. Dovette intervenire personalmente Pio XII per chiedergli di fare la “scelta più difficile”.
Spinto a fare politica contro la sua volontà – o seguendo una strada che non avrebbe voluto imboccare – a Fanfani stava stretta l’ordinaria amministrazione. Protagonista per 50 anni e politico democristiano controvoglia.
Ma uno che incontrato sulla sua strada chi ha orientato la sua inquietudine e la sua irruenza verso un grande disegno: Giorgio La Pira. Come mostrano chiaramente i Diari di Ettore Bernabei è stato La Pira a fargli vedere ciò che cosa c’era oltre la politica, e verso cui la politica doveva puntare per non diventare insignificante.
In Italia, ad esempio: perché accettare che gli operai della Pignone fossero licenziati, anche se sembrava impossibile salvare questa fabbrica (ma come poi è stato fatto)?
E nel mondo: perché accettare che la guerra in Vietnam continuasse inutilmente per molti anni anche se gli Usa si opponevano a qualunque trattativa (e poi hanno dovuto accettare la sconfitta)? A volte dietro un uomo importante, ce n’è un altro più grande di lui (anche lui piccolo ma un po’ più dei 162 centimetri fanfaniani).
E’ stato La Pira a guidare, durante i lavori in Assemblea Costituente, Dossetti, Fanfani e Lazzati (che con Laura Bianchini formarono la cosiddetta Comunità del Porcellino, dove si mangiava pasta e fagioli e si facevano pezzi della Costituzione: vivevano insieme nella casa delle sorelle Portoghesi presso la Chiesa Nuova, al civico 14, a Roma).
E’ stato ancora La Pira a ispirare la politica di Fanfani come ministro del Lavoro orientandolo verso le “attese della povera gente”. E’ stato di nuovo lui a impedire che, dopo il ritiro di Dossetti dalla politica nel 1951, Fanfani scivolasse nel mero pragmatismo.
L’influenza di La Pira è stata importante in particolare per la politica estera fanfaniana che ha spaziato dal neo-atlantismo agli interventi per impedire la guerra dopo l’erezione del muro di Berlino nel 1961, dall’attenzione per i Paesi del Terzo Mondo all’azione per favorire l’ingresso all’ONU della Repubblica popolare cinese.
Non è un caso se è stato l’unico italiano eletto Presidente dell’Assemblea dell’ONU. E che non sia mai diventato Presidente della Repubblica. Pure se candidato ufficiale della DC nel 1971. Troppi nemici.
Una scheda annullata rimane proverbiale: “nano maledetto, non sarai mai eletto”. L’Italia di oggi deve molto a questo controverso piccolo gigante della prima Repubblica.