L'inchiesta
Di cosa è accusato Christian Solinas e perché gli hanno sequestrato beni e immobili
Nessun vertice del centrodestra, solo un incontro faccia a faccia tra i due leader che non ha fruttato nulla al Capitano, che si finge soddisfatto dopo la resa: “Mai andati così d’accordo”
Politica - di David Romoli
Salvini fa buon viso a pessimo gioco: “Con Giorgia non siamo mai andati tanto d’accordo”. Quindi anticipa l’inevitabile resa in Sardegna: “In linea di principio è sempre giusto sostenere l’uscente ma in nome dell’unità della coalizione troveremo l’accordo”.
Per di più, ci sono sviluppi nelle inchieste della Procura di Cagliari sulla compravendita di una proprietà del governatore Christian Solinas e sulla nomina di Roberto Raimondi alla direzione generale dell’autorità di gestione del programma Eni-Cbc bacino del Mediterraneo.
La Guardia di finanza ha eseguito un sequestro cautelare di beni e immobili per un valore di circa 350 mila euro nei confronti del presidente Solinas e di altri sei indagati per corruzione.
Meloni sembra in ogni caso molto meno disponibile di Salvini a sacrifici di sorta per “l’unità della coalizione”. Nessuno lo sa meglio dello stesso capo leghista che ha toccato con mano quanto ferrigna sia la posizione della potente alleata a margine del cdm di martedì sera, quello che avrebbe dovuto licenziare il decreto sull’election day e ha rinviato con la prima scusa a disposizione.
Il vertice dei tre leader previsto dai giornali, se non dai diretti interessati, non c’è stato. Un faccia a faccia tra i soli Meloni e Salvini invece sì e la risposta della premier alle insistenze del suo vice sul terzo mandato per i governatori è stato il pollice verso.
Anzi, il motivo principale per cui il decreto sulla data delle elezioni è slittato è proprio che sino all’ultimo era data per certa la cancellazione del limite dei due mandati per i sindaci dei comuni sotto i 15mila abitanti.
Invece all’ultimo momento la premier ci ha ripensato o almeno ha deciso di tenere la questione in sospeso. Non perché sia davvero interessata alla sorte dei piccoli comuni ma perché proprio quella norma è l’appiglio che permette a Salvini di invocare l’innalzamento del tetto anche per i governatori e perché una Giorgia decisa a non cedere su quel punto ritiene sconsigliabile aprire un varco, fosse pure solo sui sindaci dei comuni più piccoli.
Il no al terzo mandato deriva in buona parte, ma non esclusivamente, dal progetto di scippare il Veneto alla Lega. Senza Zaia in campo e con alle spalle il successo che prevede di ottenere alle europee la missione sarà facile.
Certo, per la Lega sarebbe l’umiliazione più cocente ma per la leader di FdI non è accettabile che nessuna delle tre regioni produttive del nord sia governata dal suo partito, incidentalmente anche quello di maggioranza relativa nel Paese. Il terzo mandato renderebbe però più difficili anche gli altri traguardi che la premier mira a conquistare.
L’Emilia-Romagna, prima di tutti: la situazione di Bonaccini non è diversa da quella di Zaia. Con lui in campo la conquista della Regione rossa per antonomasia sarebbe molto più difficile. Senza la riforma che invoca Salvini, invece, il governatore emiliano è fuori gioco.
Il che, tra l’altro, soddisfa l’inquilina di Chigi anche da un altro punto di vista. In preda a una sindrome di onnipotenza vorrebbe scegliersi anche il capo dell’opposizione preferito e spera di vedere presto l’emiliano al posto di Elly Schlein.
La trappola che Giorgia ha cercato di tendere attirando la rivale diretta in una sorta di prova plebiscitaria nelle europee ha proprio l’obiettivo di bruciarla. Perché, commentano i suoi collaboratori, “Bonaccini è più pericoloso ma è anche un leader che non si limiterebbe a chiedere dimissioni di qualcuno ogni giorno e col quale si potrebbe dialogare”.
In Campania e Puglia, gli altri due target della premier, la partita resterebbe aperta anche senza la cancellazione del limite dei due mandati. Nessuna delle due regioni ha recepito la legge 165 che limita i mandati.
Dunque De Luca ed Emiliano sono decisi a correre comunque ma, anche senza contare il rischio che la norma venga interpretata come obbligo anche senza il consenso delle singole regioni, dovrebbero correre contro il loro partito e la partita per la premier sarebbe comunque molto più facile.
Meloni è convinta di avere oggi la forza di imporre ciò che vuole costringendo gli alleati a fingersi soddisfatti, come nel caso appunto di Salvini.
Eppure proprio in questa sicurezza che sta degenerando in arroganza si annida il principale rischio che corre oggi. Umiliare gli alleati vuol dire ritrovarseli pronti alla coltellata quando le circostanze lo permetteranno, e prima o poi quasi certamente capiterà.
Esagerare negli atteggiamenti imperiosi e imperativi vuol dire inimicarsi una parte del popolo votante anche di destra ed è già successo di recente che la punizione sia arrivata nelle urne di un referendum. Per questo tra i consiglieri di Giorgia non mancano quelli che le suggeriscono una maggiore condiscendenza. Sempre che ne sia capace e non è affatto detto.