Parola al germanista
“Perché la Germania è in crisi”, parla Angelo Bolaffi
«La Germania attraversa la più complicata crisi del dopoguerra. Ha dovuto ridefinire il suo modello economico che era basato sull’energia a basso costo di Putin, ha dovuto prendere atto che esiste la guerra. Immigrazione e debito: i due grandi temi di scontro»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
La “locomotiva tedesca” perde colpi. Una crisi che dall’economia arriva alla politica. Con una destra sempre più aggressiva. E una sinistra che non c’è. L’Unità ne discute con Angelo Bolaffi. Filosofo della politica e germanista, dal 2007 al 2011 è stato direttore dell’Istituto di cultura italiana a Berlino. È membro della Grüne Akademie della Böll Stiftung di Berlino e del direttivo di Villa Vigoni “Centro italo-tedesco per l’eccellenza europea”.
Germania smarrita: l’implosione dell’economia, l’ondata di scioperi, i fischi al governo e il crollo di fiducia nel futuro. È un ritratto dell’oggi troppo severo?
No. La Germania attraversa oggi la più complicata crisi del dopoguerra. Nel passato ci sono state crisi anche molto acute, il muro di Berlino, nel ’61, momenti di grave difficoltà economica, ma tutto sommato questo si svolgeva in un mondo ordinato. In un mondo in cui c’erano le due grandi potenze e quant’altro.
Ed oggi, professor Bolaffi?
Oggi, essendo cambiato tutto il mondo che ha tenuto a battesimo prima la Germania federale e poi la Germania unificata, anche la Germania, potenza europea, di fronte ad interrogativi epocali non solo non ha risposte, come non ce l’ha nessuno, ma non è neanche preparata. Non ha ancora rielaborato un pensiero rispetto alla zeitenwende (svolta epocale, ndr). Ha detto che c’è una zeitenwende, un’altra epoca, però sono gli stessi protagonisti precedenti alla zeitenwende.
Vediamoli più da vicino i problemi della crisi tedesca. Partendo dall’economia.
La Germania ha dovuto ridefinire il suo modello economico e produttivo che era basato sull’energia data a basso costo dalla Russia di Putin. E soprattutto ha dovuto fare i conti con qualcosa di cui non aveva mai voluto prendere atto per motivi di identità storica.
Vale a dire?
Che esiste la guerra. E la guerra bisogna combatterla con un esercito. La Germania ha voluto sempre essere una potenza economica e un nano militare. Un problema non solo tedesco. In questo modo la Germania diventa una metafora dell’Europa: un grosso potenziale economico, ma zero potenziale politico e militare.
In questo quadro a tinte fosche, s’inserisce la minaccia dell’estrema destra dell’ l’Alternative für Deutschland (AfD). In Germania si moltiplicano le proteste contro la AfD. C’è chi ne chiede la messa al bando. Ma nei sondaggi è al 22%.
La AfD è un fenomeno complessivo della Germania, però dobbiamo tenere ben presente che il suo 22% è come il pollo di Trilussa, c’è chi ne mangia un pezzetto e chi tre quarti. Fuor di metafora, questo 22% è molto irrobustito dal voto dei länder della ex DDR. Se fosse votata in quello che è l’ex Germania federale, l’Alternative für Deutschland sarebbe, come è stato in passato per altri raggruppamenti di estrema destra, attestata sul 10-12-15% ma non molto di più. È la presenza della AfD nelle regioni della ex Germania dell’Est a farla crescere di tanto. E questo vale non tanto per le elezioni europee, quanto per le tre importanti elezioni regionali che si terranno nell’autunno prossimo: Brandeburgo, Sassonia e Turingia, e in quei tre länder, la AfD è il primo partito, ampiamente sopra il 30%. Questo è legato anche a tratti culturali e identitari specifici della AfD.
Quali?
La vicinanza con la Russia, l’anti occidentalismo. Trentaquattro anni dopo l’unificazione, sta avvenendo in Germania quello che si è determinato nelle seconde generazioni di immigrati in Francia come anche in Germania. La dico così, per farla semplice: sono tedeschi, sono francesi, ma vogliono essere, come identità, marocchini, algerini, turchi. Vogliono trovare una loro propria identità in una storia un po’ raccontata della ex DDR. Si può analizzare il fenomeno AfD da diverse angolature, resta il fatto che la crescita dell’estrema destra è molto minacciosa, anche perché se questi sondaggi venissero confermati, il corpo politico tedesco sarebbe messo di fronte ad una scelta drammatica: o fanno un’unità nazionale “antifascista”, oppure si apre un dibattito lacerante soprattutto all’interno della Cdu. Qualcuno potrebbe sostenere: in Italia fanno un governo con la Meloni, perché noi non possiamo fare un governo regionale con queste forze? È una scelta drammatica per la Germania.
E in tutto questo, la sinistra?
Non c’è. Nel senso che la Linke è scomparsa. Letteralmente sciolta. Non c’è più il gruppo parlamentare. L’Spd in queste regioni dell’Est che vanno al voto in autunno, è sotto al 10%. Nell’Ovest si colloca attorno al 17%, un po’ come il PD. Con la differenza, non di poco conto, che in Germania ha il cancelliere. Normalmente per il ruolo del cancelliere, conta il partito che fa da traino. L’Spd al 16-17% è una cosa che non esiste. È un tracollo. A questo si aggiunge l’elemento di disturbo rappresentato dal nuovo partito di Sara Wagenknecht, la moglie di Oskar Lafontaine, che ha caratteristiche “waimariane”.
Quali sarebbero?
Rossonero. Nella Repubblica di Waimar ci fu un periodo in cui esistevano i nazi-bolscevichi. Wagenknecht ha nelle richieste di politica sociale, i caratteri proprio dell’estremismo di sinistra. Poi ha elementi populisti di destra, fuori gli immigrati. Con l’aggiunta di un atteggiamento, sia pur accorto, filoputiniano. A chi porterà via i voti? Alla Spd o alla AfD? Il partito sta nascendo proprio in questi giorni, sulle ceneri della Linke di cui la Wagenknecht è stata indubbiamente uno dei rappresentanti di primo piano.
In chiave europea, soprattutto in vista delle elezioni europee di primavera, la crisi tedesca che ricadute può avere?
In Germania non si discute delle europee come si fa da noi, quasi fossero la verifica dei rapporti di forza tra e all’interno dei partiti. Va anche ricordato che alle europee in Germania si vota con una legge elettorale diversa da quella che si usa per il voto nazionale. Non potrà essere meccanicamente confrontato. Da questo punto di vista, il voto europeo può essere più favorevole ai partiti tradizionali che all’estrema destra. Nel senso che è un tema che mobilita solo parzialmente. Se si votasse sui migranti, allora sì. Ma sull’Europa, il voto non ci dirà il livello vero della crisi del sistema politico. Resta il fatto che la Germania è un Paese serio, e in Italia c’hanno raccontato un sacco di scemenze questa estate…
Quali “scemenze”, professor Bolaffi?
C’hanno raccontato che Manfred Weber, il presidente del Ppe, capo della Cdu, sarebbe venuto in Italia per accordarsi con la Meloni per far fuori la von der Layen. Ma non scherziamo! I tedeschi sono seri. E sanno bene che se aprono il vaso di Pandora dell’esclusione della von der Layen, loro non avranno più la presidenza della Commissione europea. Non ci pensano proprio. L’elemento tedesco giocherà tutto sulla conferma di Ursula von der Layen alla presidenza della Commissione europea. Alle europee avremmo probabilmente risultati rilevanti ma meno di quanto può succedere in Italia o in Francia.
Invece il voto in autunno, nei tre länder di cui parlavo in precedenza, quello sì che farà male. Molto male.
Su cosa verte lo scontro, e la crisi, della sinistra tedesca, e che lezione dovrebbe trarne ciò che resta di sinistra in Italia?
In Germania si scontrano essenzialmente su due grandi temi che interessano anche a noi in Italia. Uno, gli emigrati. Nel senso che la Germania è un Paese molto ospitale, aperto. Ed è bene che sia così, anche per la sua storia. Ma oggi non ce la fa. Il livello dell’immigrazione in rapporto ai costi dello stato sociale, è ormai al limite della sopportabilità. Quando nel 2004 ci fu il voto contro la Costituzione europea, in Francia e in Olanda, quello che fece precipitare il voto fu il cosiddetto “idraulico polacco”. Si diceva che rubavano il lavoro. Oggi c’è il problema, l’assillo, la sindrome, chiamatela come volete, del “dentista tedesco”.
Nel senso?
Si racconta che siccome in Germania la sanità pubblica funziona ancora, e la gente non va dal dentista privato ma nelle strutture pubbliche, si fanno lunghe file e magari le persone più anziane devono aspettare che il dentista si occupi dei migranti. Sarà pure un racconto, ma questo pesa molto. Revisione della politica migratoria, che deve giocare su due equilibri: non cadere nella retorica, siamo tutti aperti, tutti fratelli, ma neanche nella retorica opposta, cacciamo via tutti. Bisogna trovare una via ragionevole di controllo dei flussi migratori in un Paese che attrae da tutte le parti, perché tutti, o quasi, di quelli che arrivano in Italia o in Grecia, desiderano insediarsi in Germania. Per la sinistra è un problema enorme, perché mette in gioco elementi culturali e psicologici rispetto ai quali la sinistra è in difficoltà, perché è nata con l’idea dell’universalismo, dell’accoglienza, dell’inclusione tout court. Il secondo punto, è il problema del debito. L’idea del freno al debito, è una costruzione voluta nel terzo governo Merkel da Steinbrück, esponente socialdemocratico. Bisogna controllare il debito. Controllandolo, succede che rispetto alle richieste dei vari gruppi sociali, dire no è complicato. L’Italia ha comprato il consenso indebitandosi. La Germania ha deciso di non volerlo fare. E quindi si trova costretta a fare delle scelte. Il vecchio Schröder, che ha fatto tanti errori in politica estera, soprattutto con Putin, ma quando è stato cancelliere ha fatto delle riforme importanti, ha sintetizzato così il rovello: la difficoltà per ogni governo, e particolarmente per la sinistra, è che quando fai dei tagli per le riforme, i dolori vengono subito, i piaceri anni dopo. E in mezzo, si perdono le elezioni. Questo è il grande tema che oggi si pone in Germania. Non solo alla sinistra, ma alla democrazia. Una democrazia che per anni ha potuto trovare consenso con uno stato sociale che sempre cresceva, e che oggi trova dei limiti strutturali, invalicabili. La gente ci sta? O scatta la rivolta, anche elettorale. Il populismo è anche questo. Non accettare che si facciano delle riforme, perché le riforme costano. Portano dolori nell’immediato, e dopo probabilmente, forse, dei vantaggi. Ma una politica che vive nell’eterno presente questa lungimiranza, questa visione prospettica, l’ha perduta e non da oggi.