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Gramsci è comunista, il ministro Sangiuliano vuole rubarcelo?

Gramsci è comunista, il ministro Sangiuliano vuole rubarcelo?

«Il libro che ora si pubblica […] appartiene anche a chi è di altro od opposto partito politico […]. Come uomo di pensiero egli fu dei nostri. Così Benedetto Croce recensiva e “consacrava” pubblicamente Le Lettere dal Carcere di Antonio Gramsci uscite poco prima dai torchi einaudiani, favorendone la conoscenza e la diffusione nella cultura italiana.

Correva l’anno 1947 e cominciava così “l’appropriazione” più o meno indebita del patrimonio culturale gramsciano anche da parte di intellettuali non certo in odore di comunismo, anzi, come nel caso di Croce, schierati fieramente sulla barricata anticomunista. È il destino dei “classici” del pensiero e la cosa non deve né stupire, né preoccupare.

Ciò che invece inquieta è la decontestualizzazione sistematica del pensiero e l’annullamento de facto delle biografie dei pensatori coinvolti (da defunti, dunque impossibilitati a replicare!) in queste vicende, che si configurano spesso come vere e proprie offensive politico-culturali volte a colpire il “comunismo storico” di cui Gramsci e la sua elaborazione sono parte integrante. È appena il caso di ricordare che questa tendenza ha subito, a partire dal 1989, una formidabile accelerazione, che non cessa.

Non si può non tenere a mente che Gramsci fu e restò un comunista rivoluzionario fino al 27 aprile 1937, data della sua morte avvenuta nella clinica Quisisana di Roma (come ci ricorderà in sæcula sæculorum la targa proposta dal ministro Sangiuliano). Certo il concetto di rivoluzione e il lemma stesso, nella elaborazione carceraria affidata ai 33 Quaderni, subì profondi cambiamenti.

Si tratta del pensiero di un uomo sconfitto su tutti i piani, rinchiuso in un carcere fascista e consapevole della vittoria dell’“altra parte”, ma deciso a proporre comunque un nuovo schema di “azione” per la sua parte, non più concepibile come l’assalto al Palazzo d’Inverno (momento culminante della Rivoluzione bolscevica avvenuto tra il 7 e l’8 novembre 1917), ma declinato invece con concetti come «guerra di posizione», conquista di «casematte» e preceduto in ogni caso da un lungo lavorio culturale (con la centralità del ruolo degli intellettuali) e la costruzione di una “egemonia” che consenta a tempo debito la sostituzione della classe al potere.

Argutamente, per sostenere la sua posizione, il Ministro (sempre lui!), nell’articolo “Antonio Gramsci e l’identità italiana” (Corriere della Sera, 17 gennaio), fa riferimento a Norberto Bobbio, di cui sono in corso le celebrazioni per il ventennale dalla morte; fu proprio il filosofo torinese, nel 1967, in occasione del secondo convegno internazionale dedicato al pensiero di Gramsci, a collocarlo tra i “classici del pensiero” depotenziandone, di fatto, la carica rivoluzionaria e rendendolo così “inutilizzabile” dal punto di vista della battaglia politica contingente e lontano dalla realtà.

La sua interpretazione condizionò fortemente gli studi successivi, probabilmente anche al di là delle intenzioni di Bobbio, che respinse con forza l’accusa di avere fornito l’ennesima interpretazione idealistica di Gramsci, ma confermò la complessità e la non linearità del pensiero gramsciano. E su questo aveva senz’altro ragione.

Apprendiamo inoltre, sempre dall’articolo succitato, che l’altro riferimento teorico del loquace Sangiuliano nell’ambito degli studi gramsciani è Franco Lo Piparo. Anche questo non ci stupisce, se pensiamo che una decina di anni fa il professore siciliano si rese protagonista di un intenso dibattito che occupò per mesi le pagine dei principali quotidiani italiani (e non solo) in seguito alla pubblicazione del “romanzesco” volume L’enigma del Quaderno.

La caccia ai manoscritti dopo la morte di Gramsci, (seguito dall’altrettanto fortunato e bislacco I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista). Tutto il libro di Lo Piparo si sviluppava come una spy story e si concludeva con la tesi, non sostenuta da alcuna prova documentaria ma esclusivamente da ipotesi e congetture che, entrato in carcere, e poi nelle due cliniche, di Formia e poi di Roma, come segretario del Partito comunista d’Italia, Gramsci ne uscì cadavere, ma avendo maturato un pensiero profondamente autocritico, ossia persuaso che tutta la sua adesione al comunismo fosse stata un grande errore, un «drizzone».

Lo Piparo insinuava l’ipotesi che uno (o più d’uno!) dei quaderni gramsciani fosse stato rubato e fatto sparire perché conteneva la notizia “bomba” del ripudio del comunismo in favore di un liberalismo già prefigurato, secondo l’autore, negli scritti giovanili.

Si costituì anche, all’epoca, in seno alla Fondazione Gramsci nazionale, un gruppo di lavoro per la verifica della numerazione apposta sui Quaderni del carcere, le cui conclusioni furono un nulla di fatto e non poterono in alcun modo avvalorare la tesi “complottistica”.

Bene fa, il Ministro, a riconoscere – bontà sua – la statura di Gramsci (è appena il caso di ricordare che si tratta di uno degli autori italiani più studiati a livello mondiale, la cui bibliografia ha raggiunto dimensioni impressionanti, con oltre 20.000 titoli, in più di quaranta lingue), ma prima di includerlo a «pieno titolo nella dialettica della ideologia italiana» nel senso di un grande calderone (che va da Prezzolini a Pirandello, da Volpe a Guareschi, passando per Gentile e Bottai…), suggeriremmo al Ministro almeno di sfogliare la gigantesca bibliografia gramsciana, per farsi un’idea di come sia fuori strada.

Non è la prima volta, d’altronde, che da sponde di destra, si tenta una “appropriazione indebita” di questo gigante del pensiero, il quale si colloca fermamente nel solco del marxismo, anche se da lui criticamente rivisitato, e rinnovato. Ci consola il fatto che i Sangiuliano passano, mentre Gramsci resta.