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Intervista a Carlo Leoni: “C’è un popolo che lotta, ma la sinistra dov’è?”

Intervista a Carlo Leoni: “C’è un popolo che lotta, ma la sinistra dov’è?”

Della Fgci è stato dirigente a Roma negli anni di piombo. Una esperienza di vita, di idealità e di lotta che l’ha accompagnato nella sua lunga esperienza politica che l’ha portato a ricoprire importanti incarichi nella sinistra e a livello parlamentare (è stato Vice presidente della Camera dei deputati). Tra quelle “belle bandiere” c’ anche Carlo Leoni.

“Quella spinta che voleva cambiare il mondo”. È molto più del titolo di “Allonsanfàn”, l’incontro del 10 febbraio a Firenze “delle ragazze e dei ragazzi della Federazione Giovane Comunista Italiana degli anni ’70-‘80”. Di quella FGCI sei stato militante e dirigente. Cosa è stata quella “spinta che voleva cambiare il mondo” e che ne è rimasto oggi?
Quella spinta che voleva cambiare il mondo non veniva certo soltanto dalle ragazze e dai ragazzi della FGCI. Era un moto generale, perfino mondiale. La mia prima tessera della FGCI è del 1970. Avevo quindici anni. Eravamo ad appena due anni dal sessantotto e nel pieno dell’autunno caldo operaio. Fu quindi quel moto generale a spingermi verso la FGCI, a farmi scendere le scale della sezione del mio quartiere e a chiedere la tessera che portava la firma di Gianfranco Borghini, allora nostro Segretario Nazionale. La vera domanda che mi sono sempre fatto e alla quale non riesco a rispondere con assoluta certezza è perché, mentre la maggioranza dei miei coetanei che sceglievano di impegnarsi in politica lo facevano con i movimenti cosiddetti extraparlamentari, io invece scendevo i gradini di una sezione del PCI Forse perché mio padre era militante del partito? Ma in tanti voltavano le spalle al PCI anche come rivolta contro i padri. Io no. Sentivo di voler far parte di qualcosa di “potente” e non effimero, ero attratto dal richiamo di una grande forza organizzata e perfino dell’appartenenza a un “campo” internazionale anche se non sono mai stato filosovietico, in sezione ho combattuto per togliere l’ultimo piccolo quadro di Stalin che era rimasto e nel mio cuore c’era Dubcek, non certo Breznev. Non mi sarei avvicinato al PCI se non avesse condannato come fece la repressione della Primavera di Praga. Ma nella mia scuola, che era molto schierata a sinistra, noi figgicciotti eravamo una sparuta minoranza e il conflitto, all’inizio solo verbale, era pressoché quotidiano. Non avevamo vita facile. Come tante e tanti ho visitato la mostra su Enrico Berlinguer al Testaccio. Una mostra bellissima. Due cose mi hanno colpito, oltre ovviamente alla ricostruzione della vicenda politica ed anche umana di Berlinguer.

Quali?
La prima è un grande cartello in cui sono elencate e descritte tutte le riforme che si riuscirono a realizzare negli anni settanta. Giulia Rodano nell’intervista che ti ha rilasciato ne parla come di una rivoluzione. Ed ha perfettamente ragione: quella spinta del sessantotto e dell’autunno caldo non era stata solo protesta. Era arrivata dentro il Parlamento e aveva cambiato la società italiana. La seconda cosa che mi ha impressionato di quella mostra è che parla non soltanto di un uomo ma di un popolo. Scorrono le immagini delle manifestazioni femministe, dei cortei operai, dei comizi di Berlinguer alle feste nazionali de l’Unità, dei suoi funerali. Milioni, sottolineo milioni, di donne e uomini che riempivano strade e piazze delle nostre città. Le ragazze e i ragazzi della FGCI erano in quei cortei, in quelle piazze. Guardavo quelle immagini e, pensando alla vittoria dell’estrema destra alle ultime elezioni, chiedevo tra me e me a quegli uomini e a quelle donne: “Ma dove siete ? Che fine avete fatto ?”. Mi è sembrato che mi rispondessero: “Ma che fine avete fatto voi! Dov’è più la sinistra in questo Paese ?”. Ecco una lezione: la destra ha vinto facendo la destra, senza nascondersi. La sinistra può tornare a vincere soltanto facendo la sinistra, senza nascondersi e senza inseguire l’agenda conservatrice. Parlo naturalmente di una sinistra non rivolta al passato ma aperta, innovativa, laburista, femminista ed ecologista. Era già così la FGCI di Roma, quella in cui io ho militato in quegli anni, che si distingueva in Italia per la sua apertura culturale e per il suo rapporto con intellettuali di primo piano come Pasolini, Moravia, Bertolucci, Enzo Siciliano, Dacia Maraini. D’altronde tra i nostri dirigenti più rappresentativi c’erano persone come Gianni Borgna, Walter Veltroni e Goffredo Bettini uomini di cultura, non soltanto personalità politiche. Ai funerali di Pasolini, in Piazza Campo dÈ Fiori insieme a Moravia parlò proprio il “nostro” Gianni Borgna e quello fu un riconoscimento importante per tutte e tutti noi.

Quella FGCI era pacifista, praticava la non violenza e aveva una forte vocazione internazionalista. Tutto archiviato?
Su questo tema, nella sua intervista, Marco Fumagalli ha fatto una serie di riflessioni che condivido. È mancata, dopo il crollo del muro di Berlino, la volontà di pensare ad un mondo “oltre i blocchi” invece che alla pretesa di un pianeta unipolare. Pretesa che, come vediamo oggi, si è rivelata una supponente illusione. C’era chi lo stava facendo, ma la sinistra “ufficiale” non ha prestato ascolto. Mi riferisco al movimento altermondialista, pigramente chiamato no-global. Un appellativo falso perché quel movimento non era contro la globalizzazione, non era certo nazionalista, era impegnato ad immaginare un altro modo di governare il mondo, con altre priorità che non fossero quelle del profitto fine a sé stesso e dello sfruttamento delle risorse umane e materiali presenti sulla terra. Ho partecipato nel 2004 al Social Forum di Mumbai e mi sono reso conto della grande mole di idee, di proposte, di progetti che venivano elaborati e presentati. Una vera e propria agenda per un mondo socialmente ed ecologicamente sostenibile. Non era pura contestazione: c’erano più progetti lì che in dieci Forum economici di Davos. Se avessero prevalso quelle idee oggi vivremmo in un pianeta indubbiamente più sicuro e più giusto. Ma per prevalere quelle idee avrebbero dovuto essere sostenute da istituzioni, movimenti, partiti di sinistra. E invece la socialdemocrazia, chi più chi meno, pensava che il suo compito fosse quello di accompagnare la globalizzazione liberista per cercare di correggerne le storture, non quello di progettare un altro mondo possibile. Per tornare agli anni settanta, in Italia accadde qualcosa di simile. Fu proprio Berlinguer ad aprire un varco sul futuro quando all’Eliseo propose l’austerità come “leva per il cambiamento”, un discorso che a noi della Fgci piacque molto perché alludeva ad un nuovo modo di produrre e a nuovi beni, a combattere sprechi e privilegi in nome dell’equità, al rispetto dell’ambiente. Non ci piacque affatto quando invece quel discorso venne trasformato in qualcosa di molto diverso dal messaggio originale e cioè in “politica dei sacrifici” a senso unico e in appello alla moderazione salariale. Premesse non soltanto per i governi di solidarietà nazionale ma anche per la cancellazione della scala mobile. Tant’è che l’Italia è l’unico Paese europeo in cui dagli anni ottanta ad oggi il potere d’acquisto di salari, stipendi e pensioni è diminuito invece di crescere. Ecco, tutto questo con il discorso dell’Eliseo non c’entrava proprio niente.

Un valore di quella FGCI, praticato anche con un tributo di sangue, fu l’antifascismo. A Roma, in particolar, erano anni di piombo…
E furono uccisi dai fascisti nostri giovani compagni romani come Ivo Zini nel 1978 e Ciro Principessa nel 1979 entrambi mentre sostavano di fronte a sezioni del Pci, il primo all’Alberone, il secondo a via dell’Acqua Bullicante. E prima ancora, nel 1976, era stato ucciso a Sezze, in provincia di Latina, Luigi Di Rosa. A sparagli durante un comizio del MSI fu Sandro Saccucci, esponente di punta di quel partito. La mobilitazione antifascista in città fu molto forte e soprattutto molto unitaria: i partiti dell’arco costituzionale, le organizzazioni sindacali e quelle dei partigiani riuscirono a mobilitare tanta parte del popolo di Roma, medaglia d’oro per la Resistenza. Ma noi della FGCI eravamo un po’ tra due fuochi, perché alla violenza fascista si aggiunse poi quella delle BR e dell’autonomia operaia che, non possiamo ometterlo, ebbe anche un certo seguito e un’area di consenso nelle scuole e all’Università. Tuttavia nel contrastare gli uni e gli altri non potevamo stare sulla difensiva e apparire come quelli che tutelavano l’esistente, perché l’esistente era indifendibile. Ci impegnammo allora, insieme ad altre organizzazioni di sinistra, in quello che chiamammo “un nuovo movimento” che rilanciava gli obiettivi del cambiamento della scuola e della società ma rifiutando e combattendo ogni forma di violenza.

Dalla FGCI a un impegno politico che ti ha visto protagonista prima nel PCI successivamente in altre forze della sinistra, nel paese e in parlamento. Non ti chiedo un bilancio ma…
Sono state innanzitutto esperienze molto formative sul piano culturale e politico. Dalla politica ho imparato molto. Nostalgia? No, non serve. Ma quando vedo la povertà del dibattito politico attuale in Italia allora mi viene da pensare che “siamo stati abituati bene da piccoli”, talmente bene da non poterci appassionare più di tanto alle schermaglie di oggi. Per usare un’espressione di Umberto Eco “eravamo fatti di libri”, studiavamo prima di parlare.

Lotta di classe, una visione ecopacifista della crescita, la difesa dei più indifesi, a cominciare dai migranti che continuano a morire nel Mediterraneo…Una sinistra che non è all’altezza di queste sfide, può ancora definirsi tale?
Certo che no. Ma voglio continuare ad essere ottimista. Oltre un milione di persone ha votato alle primarie del Pd e la maggioranza ha scelto Elly Schlein perché vuole un partito collocato nettamente a sinistra. Leggo sulla stampa di retroscena che descrivono trame e “reazioni termidoriane” che provocherebbero l’ennesima e credo definitiva delusione nell’elettorato del Pd. Forse la sua fine. Ma sono incoraggiato dalle tante persone che sono scese in piazza con la Cgil e le altre associazioni progressiste il 7 ottobre, dall’enorme mobilitazione delle donne contro i femminicidi il 25 novembre dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin e dalla stessa manifestazione nazionale del Pd a Piazza del Popolo l’11 novembre nella quale erano presenti anche i leader di altre formazioni progressiste. Un popolo c’è. Ora serve l’alternativa a questa destra nazionalista che invece di combattere la povertà combatte contro i poveri.