I diritti dei detenuti
Amore dietro le sbarre, cosa succede dopo la storica sentenza della Consulta
Dice la Consulta: la progressiva affermazione del diritto all’affettività carceraria altro non è che «una tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena»
Editoriali - di Andrea Pugiotto
L’ordinamento penitenziario non ne parla. Il codice penale non la contempla. Nessun giudice l’ha mai irrogata. Eppure – benché priva di base legale – la deprivazione della sfera affettivo-sessuale è una punizione accessoria regolarmente inflitta a detenuti e detenute, senza eccezione alcuna: presunti innocenti o rei condannati.
La buona notizia è che il Giudice delle leggi, finalmente, ha riconosciuto in questa primitiva punizione corporale una violazione al disegno costituzionale delle pene. E, con sent. n. 10/2024, ha rimosso dall’ordinamento penitenziario l’inderogabilità del controllo visivo sui colloqui tra il detenuto e il partner, tracciando la via per riconoscere anche in Italia la possibilità per il recluso di usufruire, in carcere, di spazi riservati in cui trattenersi con la persona cui è legato affettivamente, al riparo dal controllo degli agenti penitenziari.
Tecnicamente, si tratta di una sentenza “additiva di principio”: dichiara illegittima l’assenza di una disciplina idonea ad assicurare l’effettività del diritto costituzionalmente riconosciuto. Il legislatore dovrà provvedere, stabilendone i modi «idonei a garantire l’esercizio dell’affettività dei detenuti, nel senso fatto proprio dalla presente pronuncia».
Nel frattempo, il diritto all’intimità inframuraria andrà assicurato dall’«amministrazione della giustizia, in tutte le sue articolazioni, centrali e periferiche, non esclusi i direttori dei singoli istituti» penitenziari.
Sul come, tornerò più avanti. Prima ancora, infatti, in questa sentenza si può vedere il ritratto del «volto costituzionale della pena», sfregiato in profondità dalla «desertificazione affettiva» causata dal dispositivo proibizionista, ora rimosso.
La pena – ci ricorda la Consulta – comprime la libertà personale, ma non può sradicare le altre libertà con divieti generali e astratti ingiustificati. La pena, nella sua esecuzione, non può essere insensibile alle specifiche prospettive del rientro in società del singolo detenuto. La pena è una sofferenza legittima solo se inflitta «nella misura minima necessaria», oltre la quale si risolve in una lesione della dignità della persona.
Individualizzazione. Risocializzazione. Proporzionalità. Rispetto della dignità umana. La Costituzione dietro le sbarre questo significa, non il suo contrario: una Costituzione, cioè, prigioniera e impotente, cedevole alle esigenze di difesa e di vendetta sociale. Ecco perché –afferma la Consulta – la progressiva affermazione del diritto all’affettività carceraria altro non è che «una tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena».
Nella decisione della Corte si trova anche la conferma che il “pianeta carcere” non è un mondo a parte, ma è parte del nostro mondo. Non c’è motivo, dunque, perché non possa riconoscersi nelle carceri italiane quanto è raccomandato dal Consiglio d’Europa, quanto è affermato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, quanto è già riconosciuto in altri 31 paesi europei (ma anche, ad esempio, in Messico, Israele, Canada): la possibilità per il detenuto «di esprimere una normale affettività con il partner».
Infatti, a rendere l’amore dietro le sbarre un atto osceno – solitario, rassegnato, spesso subìto – è l’assenza di un’alternativa fin qui negata nel nostro Paese. Proprio perché quello penitenziario non è un ordinamento separato, la soluzione al problema dell’intimità in carcere non può essere delegata fuori dal carcere. L’alibi dei permessi premio non regge. Rispondono a «una logica premiale» impropria per l’esercizio di un diritto fondamentale.
Sono benefici penitenziari cui accede «una quota modesta» di detenuti. Per tacere, poi, della paradossale condizione del detenuto in attesa di giudizio: in quanto recluso, gli è vietata l’affettività dietro le sbarre; in quanto imputato, non potendo fruire di permessi premio, gli è preclusa anche l’affettività extra moenia. Fa bene, dunque, la Corte costituzionale a riconoscere al problema in esame «una necessaria dimensione intramuraria», che trova nei permessi premi «una risposta solo parziale».
Infine, è un mondo alla rovescia quello in cui si ridimensiona la negazione di una libertà (l’esercizio dell’affettività) perché, nel carcere, ben altre sono le libertà fondamentali negati. La logica dei diritti non è di reciproca esclusione, ma di coesistenza, se necessario attraverso un bilanciamento reciproco.
Proprio perché interconnessi, l’attuazione della sent. n. 10/2024 costringerà a sciogliere anche altri nodi irrisolti: su tutti, quello di «strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento».
Eppure, già qualcuno parla di inutile sentenza-manifesto, «roba da vecchi illuministi incipriati che discettano in astratto». In realtà i giudici costituzionali mostrano piena consapevolezza dell’«impatto» e dello «sforzo organizzativo» conseguenti alla loro decisione e della «gradualità eventualmente necessaria» alla sua attuazione. Tuttavia, la violazione di lunga durata della Costituzione e della Cedu «impone» il ripristino della legalità. Senza scuse e con la massima immediatezza possibile.
Lo dimostra la tecnica decisoria scelta: la dichiarazione d’incostituzionalità, invece di un suo differimento ad altra udienza (com’è accaduto per la quaestio dell’ergastolo ostativo). Lo conferma il fatto che, «nelle more dell’intervento del legislatore», è l’amministrazione penitenziaria ad essere chiamata «a un’ordinata attuazione dell’odierna decisione», in collaborazione con la magistratura di sorveglianza chiamata a garantire la tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della prima lesivi dei diritti dei detenuti (incluso l’esercizio dell’affettività inframuraria).
Quanto alla legge che dovrà venire, nulla c’è da inventare. Il legislatore può capitalizzare il lavoro svolto dal Tavolo VI degli Stati generali per la riforma dell’ordinamento penitenziario, dedicato al “Mondo degli affetti e territorializzazione della pena”. Può recuperare le pertinenti iniziative legislative presentate, nella scorsa legislatura, dai Consigli regionali della Toscana e del Lazio. Può utilmente muovere dalla proposta di legge a firma dell’on. Magi (n. 1566) depositata alla Camera.
Il guardrail di questa «azione combinata» tra legislazione, amministrazione e giurisdizione, è già nel catalogo in sentenza di problemi ed esigenze che si pongono per l’esercizio del diritto all’affettività in carcere: visite di durata congrua, non sporadiche, in locali appropriati e riservati, interni all’istituto; colloqui intimi cui ammettere – senza distinzione – il coniuge, la parte di unione civile, il convivente, la persona legata da «stabile legame affettivo».
Quanto alle sue limitazioni, andranno collegate esclusivamente a «esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina» nell’istituto e, per gli imputati, a «ragioni giudiziarie». Anche l’amore in carcere, dunque, viaggia su un doppio binario che esclude i detenuti nei regimi speciali del 41-bis e della sorveglianza particolare, non anche i ristretti per reati cosiddetti ostativi, per i quali però si giustificherà «una più stringente verifica» circa i presupposti di ammissione al godimento del diritto.
Quella prefigurata dai giudici costituzionali appare «una soluzione complessivamente mite e ragionevole» (Antonio Ruggeri). Si tratta ora di vigilare contro il rischio di manovre dilatorie che – c’è da scommettere – non mancheranno.
Oggi, però, prevale la soddisfazione di vedere come dal ricorso di un detenuto nella Casa circondariale di Terni, valorizzato da un magistrato di sorveglianza avvertito e giuridicamente capace, l’impossibile si è fatto possibile: spes contra spem. «Io non esulto più per niente, ma sono contento», ha scritto Adriano Sofri alla notizia della sentenza. Lo sono anch’io.