Dove eravamo rimasti? Una favoletta ripeteva che a regnare incontrastato nel mondo era il liberismo e che tutte le antiche zavorre stataliste erano definitivamente crollate. Solo la concorrenza e il mercato regolavano le capacità delle imprese di affermarsi nell’aspra gara per il profitto illimitato. Questa narrazione esce ora a pezzi dalla grottesca disputa tra ciò che un tempo si chiamava Fiat e quello che in modo antico si denominava governo.
Il liberismo è stato un fenomeno reale, quanto ai suoi esiti distruttivi così efficacemente rappresentati da Ken Loach, solo per il lavoro: precarizzazione, incertezza, indebolimento del sindacato, perdita di soggettività politica e quindi smarrimento dei diritti di cittadinanza, con beni primari come la scuola e la salute gettati come merci acquistabili con il denaro. Per la grande impresa, il liberismo è invece rimasto solamente un’ideologia da sventolare.
Nella sostanza è ancora operante nell’economia della conoscenza quel meccanismo che Marx ribattezzava di estrazione di “un plusvalore indiretto”, ossia non legato all’immediato processo lavorativo in fabbrica, ma connesso al contributo succoso proveniente dai fattori esogeni (fisco, prelievo, risparmio, banche).
L’impresa è sempre stata “sociale” nel senso che la fonte prioritaria della ricchezza riconduce al lavoro, ma i capitali necessari per le avventure e le innovazioni sono in gran parte di derivazione pubblica.
Anche nella stagione liberista la mano visibile dello Stato ha continuato a premere per incoraggiare l’accumulazione in tutti i grandi paesi. Senza le anticipazioni nel settore militare e di difesa americano neppure la scoperta della rete sarebbe diventata la molla dell’età digitale. Solo in Italia trent’anni fa il liberismo fu preso sul serio e, in ossequio alla bandiera mercatista, la funzione pubblica venne abbattuta con conseguenze irreparabili.
La Germania e la Francia hanno deciso diversamente circa il rapporto tra politica ed economia. Proprio lo Stato francese è oggi un attore essenziale nel controllo del diritto di voto dentro Stellantis. In Italia la presenza dello Stato è in effetti divenuta residuale, e la leva pubblica viene invocata dalle aziende solo per spremere aiuti, bonus e agevolazioni. I resti della Fiat, d’altra parte, sono anch’essi ben lontani dal saper disegnare strategie di innovazione e di politica industriale.
Un articolo di Maurizio Crippa sul Foglio descriveva la metamorfosi dell’azienda torinese: dall’industria meccanica, dove arranca nella competizione con i colossi mondiali, le sue mire sembrano ora dirottate tutte verso il calcio nazionale.
Vincere il campionato con la Juventus diventa l’imperativo supremo. Il mandato ai giornali di opinione di sua proprietà, una volta dismessi i raffinati panni della polemica progressista, è perciò quello di denunciare complotti a vantaggio di squadre antagoniste ed esercitare una presa quasi totalitaria nel giudizio mediatico sul Var, sui cartellini e sulle spinte in area di rigore.
A correre i pericoli più consistenti, nel duello tra un governo inadeguato a concepire una qualche politica industriale e un’impresa che naviga senza strategie produttive, sono i lavoratori. Il manager Carlos Tavares, come da copione, è liberista con gli altri ma si dimostra saldamente statalista per sé.
E quindi vuole l’introduzione di dazi e ostacoli di varia natura per intralciare il cammino dei concorrenti cinesi, poi però reclama maggiori sostegni tutti da assegnare alla propria azienda. Dichiara senza remore che “senza sussidi per l‘acquisto di veicoli elettrici si mettono a rischio le fabbriche italiane”. Al solito, la variabile indipendente è il sacrificio della persona che lavora.
Il governo, con un ministro che di nome fa Adolfo, intima alla Fiat di produrre almeno un milione di automobili in Italia, e guarda ai gloriosi anni Trenta, con il mitico ruolo dell’Iri che fu, ma la sua pistola è del tutto scarica. Minaccia di entrare con quote dello Stato nell’azionariato di Stellantis, e però è evidente che sta semplicemente bluffando.
Ci vogliono soldi, tempo e visione strategica per compiere un’azione complessa come arrivare al controllo statale di una grande azienda. Per le mani il governo non ha proprio nulla: Meloni ha appena messo in vendita le residue porzioni di Eni, Poste e Ferrovie per racimolare qualche spicciolo e fare cassa.
Dopo aver fatto tante sceneggiate contro la famiglia Agnelli, responsabile della denazionalizzazione della Fiat, Meloni non può dunque che cedere ancora una volta e accontentarla con i vecchi ecobonus.
Non meno mistificatoria è la velleità del governo di destinare corposi fondi pubblici per facilitare la comparsa in Italia di un’impresa concorrente alla ex-Fiat. Con le scarse risorse manovrabili, non è proprio possibile convincere investitori esterni a intervenire in Italia per creare dal nulla un mercato competitivo.
C’è però un punto dove tutti i litiganti ben presto trovano un principio di accordo: il nemico numero uno da contenere è l’industria di Pechino. Bisogna bloccare (altro che liberismo!), tramite disposizioni statali e direttive europee, il temibile dragone, che commercia macchine elettriche allo stesso costo di quelle a benzina, e cioè ad un prezzo del 40% inferiore rispetto a quello dei marchi occidentali.
Così, in nome della paura del celeste impero, un’impresa con segnali di inefficienza, la quale in Italia gode praticamente di una situazione di monopolio nella realizzazione di vetture elettriche, si ostinerà a succhiare capitali senza rendere conto delle proprie arretratezze tecnologiche.
Il nodo dei costi poco competitivi non può essere sciolto, come ordina il governo, con l’aumento della produzione sul territorio italiano per portarla fino alla soglia di un milione di esemplari (oggi sono 400mila i modelli sfornati). E la cura alla grave carenza di domanda neppure può risiedere nella riproposizione all’infinito di iniezioni pubbliche.
La questione della transizione energetica esige delle scelte politiche coerenti. La destra ha invece sempre combattuto, quale simbolo della sinistra elitaria della Ztl, ogni disincentivo alla circolazione di auto diesel nei centri storici, in un paese che vanta un parco macchine tra i più vecchi e inquinanti d’Europa.
La ineludibile riduzione dei costi non può esaurirsi nel mero sostegno alla domanda, attraverso incentivi reiterati motivati dalla necessità di scongiurare il “bagno di sangue” cui allude Tavares. Neppure serve a qualcosa la esortazione governativa rivolta ai capitali stranieri (ma non cinesi) di trasferirsi in Italia.
Hanno ragione perciò il sindacato e l’opposizione a mostrarsi preoccupati e a pretendere, oltre a misure tempestive per tutelare la forza lavoro, anche politiche industriali, investimenti, ricerca come le sole risposte strategiche utili per abbassare i prezzi dell’elettrico e resistere alla concorrenza