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Cosa sono i centri di permanenza per i rimpatri, carceri illegali in mano ai privati

Cosa sono i centri di permanenza per i rimpatri, carceri illegali in mano ai privati

Il sistema della “detenzione amministrativa” degli stranieri in attesa di espulsione (una nozione che è in sé un paradosso giuridico) è esplosa mostrando con bruciante evidenza sia il suo fallimento sia l’inaudito livello di violenza cui il sistema stesso è giunto.

Nel corso del 2022 il sistema dei C.P.R. (centri per il rimpatrio) ha garantito l’espulsione coattiva di 3.154 stranieri su un numero di 6.383 persone che vi erano state rinchiuse (dati forniti da Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale nella sua settima relazione al Parlamento, giugno 23).

Non si tratta solo di meno della metà delle persone trattenute ma di un numero di allontanamenti eseguiti che è irrisorio in relazione al totale degli irregolari che, ai sensi della legge vigente, dovrebbero essere espulsi anche attraverso i CPR.

Non ci sono dati precisi su quanti siano gli irregolari in Italia ma, rimanendo nell’anno di riferimento della relazione del Garante, l’ISMU nel suo 28° rapporto sulle migrazioni, stimava la presenza, nel 2022, di 506mila irregolari, ovvero un numero superiore di 161 volte superiore a quello dei rimpatri effettuati.

La radicale irrilevanza del sistema dei CPR rispetto alla funzione di allontanare gli irregolari è così evidente che lo stesso Garante evidenziava nel suo precedente rapporto del 2020 che “la detenzione amministrativa assume nella prassi prevalentemente i tratti di un meccanismo di marginalità sociale, confino e sottrazione temporanea allo sguardo della collettività di persone che le autorità non intendono includere, ma che al tempo stesso non riescono nemmeno ad allontanare”.

Lo scarto incolmabile tra il numero di stranieri irregolari (e quindi teoricamente da espellere), il numero di coloro di cui è stata tentata inutilmente l’espulsione e che sono rimasti in Italia in condizioni di marginalità e infine di coloro che sono stati effettivamente allontanati, restituisce la misura dell’irrazionalità del sistema. Risulta impossibile espellere mezzo milione di persone o più non solo per evidenti ragioni organizzative, ma soprattutto perché voler perseguire un simile obiettivo sarebbe folle in sé.

Il sistema degli allontanamenti forzati in una società democratica non è quello che produce provvedimenti di espulsione a decine di migliaia e che non potrà mai eseguire se non colpendo a caso nel mucchio, bensì è quello che ne decide e ne attua il minor numero possibile avendo ben chiaro che l’espulsione coattiva è una decisione da assumere solo come extrema ratio, ovvero nei casi più gravi quando ogni altra ragionevole possibilità di mantenimento del soggiorno o di regolarizzazione dello stesso possa essere ragionevolmente esclusa.

Si tratta di una valutazione che, per la sua delicatezza e per la rilevanza dei diritti e degli interessi pubblici in gioco dovrebbe essere non solo sottoposta a controllo bensì assunta dall’autorità giudiziaria ordinaria in un bilanciamento tra i diritti della persona e la sua possibilità di inserimento nel nostro Paese, e dall’altro la tutela della sicurezza della collettività. Nessuna riforma delle espulsioni sarà mai possibile se non si attua, a monte, una riforma della normativa vigente sull’immigrazione istituendo reali e praticabili canali di ingresso regolare.

L’attuale miserabile finzione del decreto flussi null’altro è se non la regolarizzazione mascherata di coloro che già sono qui dopo esservi per lo più arrivati con i trafficanti che fingiamo di contrastare, ma dei quali, con le nostre folli scelte, siamo nei fatti stretti alleati.

L’assenza di vie regolari è una scelta politica e normativa dal marcato profilo criminogeno, in quanto produce ed alimenta senza sosta il florido mercato del lavoro nero e del grave sfruttamento, che anch’esso fingiamo di contrastare, a cui vengono sottoposte senza scampo milioni di persone costrette a vivere per anni in attesa di trovare una via per “regolarizzarsi”, e sperando, ogni giorno della loro vita, di non essere fermati per un controllo e rientrare, non per loro condotta ma solo per crudele sorte, del piccolo gruppo dei dannati che finirà in un CPR.

Una vera e propria macchina dell’insicurezza e della violenza. Di Ousmane Sylla chi scrive sa solo che aveva solo 22 anni ed era arrivato in Italia da minore a 16 anni e che l’intera sua famiglia, genitori, sorelle e fratelli sono tuttora in Guinea. Solo lui dunque si trovava in Europa; un ragazzo irrequieto che forse non riusciva a rielaborare i traumi che aveva subito, e che solo amava cantare, sempre, anche quando gli altri erano infastiditi da ciò.

Come altri dannati Ousmane è finito per futili ragioni e per casualità nel meccanismo infernale sopra descritto dell’irregolarità, dell’espulsione e poi della detenzione senza reato; un meccanismo che, sottraendogli ogni prospettiva di futuro, lo aveva ucciso lentamente, prima ancora che egli decidesse di porre in essere la decisione finale.

Ousmane venne rinchiuso il 10 ottobre 2023 nel CPR di Milo (Trapani), lo stesso CPR rispetto al quale in un rapporto dello stesso ottobre 2023, ASGI segnalava tra le molte problematiche “criticità nell’accesso tempestivo e sistematico all’informativa legale, nell’accesso alla protezione internazionale, nonché nell’accesso alla difesa” oltre che l’impossibilità di utilizzo dei telefoni cellulari, in violazione di uno dei diritti fondamentali di corrispondenza telefonica previsti dalla legge al fine di poter esercitare concretamente il diritto alla difesa e mantenere rapporti con i famigliari e con il mondo esterno.

Dopo l’incendio appiccato a fine gennaio da alcuni migranti, il centro era divenuto inagibile e oltre centro trattenuti erano stati costretti a dormire all’aperto. Poi il trasferimento di parte di loro, tra cui Ousmane, al CPR di Ponte Galeria.

Nella relazione sul suo stato di salute psicologico nel CPR di Milo si evidenziava un chiaro stato di sofferenza che sfociava in una costante ribellione e in una continua, ossessiva richiesta di tornare a casa, in Africa, come ha d’altronde scritto nel suo ultimo messaggio, sul muro, la notte del suicidio. Eppure Ousmane Sylla era munito di attestazione sanitaria che lo dichiarava idoneo alla vita nel CPR.

Il diritto dell’Unione Europea sulle espulsioni, pur molto duro nella sua impostazione, si fonda su due capisaldi: il primo è che il rientro volontario deve sempre essere la prima finalità da perseguire.

“La decisione di rimpatrio fissa per la partenza volontaria un periodo congruo di durata compresa tra sette e trenta giorni” recita, all’art. 7, la Direttiva 2008/115/CE. Una priorità cui si può derogare solo in casi di pubblica sicurezza o di “rischio di fuga”, definita quale “sussistenza in un caso individuale di motivi basati su criteri obiettivi definiti dalla legge per ritenere che un cittadino di un paese terzo oggetto di una procedura di rimpatrio possa tentare la fuga”.

La nozione di rischio di fuga non può però essere usata come grimaldello per eludere il principio della priorità del rientro volontario come invece avviene da sempre in Italia dove, con sostanziale automatismo il rischio di fuga si applica a tutti gli irregolari attuando un ribaltamento totale della norma così che il rientro volontario da ipotesi prioritaria diviene ipotesi residuale e i programmi di rientro volontario assistito, che dovrebbero renderlo possibile a chi non ha mezzi economici minimi per tornare, sono quasi inesistenti.

Il secondo caposaldo è che la detenzione è, in un’ottica di proporzionalità, l’ultima misura da adottare se non possono essere applicate misure sufficienti ma meno coercitive, deve avere la durata più breve possibile e “quando risulta che non esiste più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi (…) il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata” (Direttiva, art. 15 par.4).

Perché dunque, dopo mesi di trattenimento senza esito di una persona vulnerabile, e preso atto della mancanza di accordi di rimpatrio tra l’Italia e la Guinea, il giudice di pace, cui la legge vigente attribuisce la verifica della sussistenza delle ragioni per proseguire il trattenimento (con vistosa eccezione al principio generale che colloca nella magistratura ordinaria la competenza in materia di libertà personale) ha ritenuto di convalidare la proroga del trattenimento di Ousmane Sylla?

Da Milo a Milano dove, secondo i pm della Procura milanese “gli ospiti erano ridotti in condizioni che non pare esagerato definire disumane” fino alle condizioni di assoluto degrado del CPR di S. Gervasio (Potenza) e di Gradisca d’Isonzo (per non parlare dei CPR che sono stati chiusi come quello di Torino) non comprendere che non si tratta di fatti di inaudita gravità ma isolati, bensì di una condizione strutturale, sarebbe manifestazione di straordinaria cecità.

Il sistema dei CPR, oggetto di inchieste tanto rigorose quanto sconcertanti tra le quali quella di Altreconomia sulla somministrazione di massa di psicofarmaci, si situa interamente al di fuori della legalità nella misura in cui in modo sistematico non rispetta i principi e i vincoli dati dal diritto dell’Unione, nonché viola il divieto assoluto, sancito dall’art. 3 della Convenzione Europea per i diritti dell’Uomo, di infliggere trattamenti inumani e degradanti che da tempo sono l’orizzonte ordinario nei CPR, senza eccezione per nessuno di essi.

Le ragioni di questo cupo scenario sono principalmente due: la prima è che non esiste alcuna normativa, neanche regolamentare, che disciplini in modo rigoroso i diritti dei trattenuti (per i CPR non c’è nulla di equiparabile al codice penitenziario) e preveda forme di controllo e sorveglianza su queste strutture da esercitarsi da parte di un’autorità giudiziaria.

La seconda è che la privatizzazione della detenzione operata per lucro da parte di enti privati (oramai grandi aziende che hanno costruito su ciò fortune economiche) è in sé un modello aberrante da cancellare.

In attesa di un riforma, di cui v’è massima urgenza, che ridefinisca l’intero sistema delle espulsioni, il Parlamento deve avviare senza indugio un’indagine sull’effettivo funzionamento dei CPR che vanno ridimensionati e progressivamente chiusi perché la situazione è troppo grave per non essere affrontata con misure immediate che pongano fine a una spirale di degrado e di violenza.