Lega e FdI sono ai ferri corti e nasconderlo con i sorrisoni di circostanza di fronte alle telecamere e con le dichiarazioni a effetto diventa sempre più difficile. L’ultima settimana è stata di quelle che segnano febbre alta e crescente.
La Lega innalza la bandiera col trattore sopra e spara a zero sul ministro dell’Agricoltura Lollobrigida, fratello e cognatissimo, oggetto peraltro di una mozione di sfiducia renziana. Il quale risponde per le rime: “La norma sull’Irpef l’ha fatta il Mef”. Cioè Giancarlo Giorgetti, cioè la Lega.
Sarà anche vero ma Salvini non fa una piega. Martedì la cena pugnace con gli agricoltori. Ieri un summit con tutto lo stato maggiore del Carroccio e al termine una quasi dichiarazione di guerra: “Bisogna intervenire ancora più efficacemente sull’Irpef”. Traduzione: l’esenzione fino a 10mila euro, che per Meloni è il massimo che si possa concedere, non basta.
È il fronte più rovente. Non l’unico. Il Carroccio prende di mira la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen: “Ha governato malissimo, è scesa a patti con i socialisti, per la destra è invotabile”, va giù secco il vicesegretario Crippa, quello a cui tocca l’incarico di dire fuori dai denti quel che Salvini, per ovvie esigenze diplomatiche, non può dire. Poi, anzi forse prima, c’è la croce del terzo mandato.
Il leader della Lega minaccerebbe di andare da solo alle provinciali del prossimo marzo se per quella data non ci sarà il semaforo verde per il terzo mandato dei governatori. L’alleata non ha nessunissima intenzione di cedere e concederlo. Come ormai tutti sanno si scrive “terzo mandato” ma si legge “Veneto”.
Con la possibilità di ricandidarsi Zaia sarebbe blindatissimo, senza di lui in campo FdI pretenderà la candidatura, per scippare la Regione più importante (a pari merito con la Lombardia) alla Lega. Ovvio che l’ex “capitano” strepiti.
Quanto spazio abbia Salvini per andare al di là di ruggiti privi di qualsiasi effetto pratico però non si vede. Il danno peggiore che può fare, non avendo alternativa all’alleanza con i tricolori, è danneggiare l’immagine della coalizione mostrandola divisa. Ma è un danno che finisce per fare a se stesso, oltre e forse più che alla premier.
In apparenza il guastafeste è infatti sempre lui, che insiste nell’attaccare governo e alleata per strappare un pugnetto di voti alle europee. Le apparenze, come spesso capita, ingannano. Ad attaccare, avendo però l’accortezza di non farlo vedere, è piuttosto la premier e leader di FdI.
I fatti parlano da soli: autonomia differenziata a parte in un anno e mezzo di governo la Lega non ha ottenuto assolutamente niente e quel sacrificio era per Giorgia necessario in cambio del semaforo verde sul premierato.
Su quel tavolo, invece, la Lega è rimasta a mani vuote. La sfida per svincolare la sorte della legislatura da quella del premier direttamente eletto l’ ha vinta FdI, con un solo margine residuo d’ambiguità che verrà quasi certamente definito nell’iter della doppia lettura.
Meloni però non si accontenta di concedere pochissimo e meglio se niente. Stringe d’assedio il Carroccio minacciando puntualmente le sue posizioni. La decisione di conquistare il Veneto, dove FdI è in fortissima ascesa, è uno schiaffo molto più che bruciante.
L’ingresso di Reconquete nel gruppo dei Conservatori indica che la premier non intende occupare lo spazio di una destra se non moderata almeno non antieuropea, lasciando alla Lega il monopolio di quella più radicale e anti-Ue.
La premier inoltre persegue l’obiettivo ambizioso di arruolare nel suo eurogruppo, dopo Orban, anche Marine Le Pen. Se ci riuscirà, lascerà la Lega sola con l’AfD tedesca: la posizione meno invidiabile, almeno in questo momento, che si possa immaginare.
Giorgia Meloni, ormai lo dovrebbero aver capito anche i sassi e di certo lo ha capito Salvini, non segue la stessa logica di coalizione che ispirava Berlusconi. È donna di partito, non di Polo. Tratta poco e concede anche di meno.
La sua logica è quella dei rapporti di forza e se di Fi ha bisogno, perché il partito di Tajani copre elettoralmente un’area che difficilmente, sempre per ora, confluirebbe sull’ex Msi, l’utilità della Lega non va oltre quella di un partito nordico forte ma non fortissimo e anche su quella piazza gregario della corazzata tricolore.
È un azzardo, o meglio lo sarebbe se la Lega disponesse di un’alternativa, di un “secondo forno”, per ora inesistente. Ma se mai quell’alternativa si materializzasse Salvini non esiterebbe a colpire. Non per attaccare ma per salvarsi dalla voracità dell’alleata.