Roberto Roscani, giornalista per 30 anni dell’Unità, della quale è stato anche vicedirettore, in occasione del centenario del giornale ha scritto un libro che ne racconta la storia. Edizioni
Fandango, pagine 320 euro 20. È in libreria da pochi giorni. Per gentile concessione della Fandango ne pubblichiamo un capitolo.
Cominciamo dalla fine, da un funerale. Lo so anch’io che le vite non si acchiappano dalla coda, eppure è da qui che bisogna partire: Arminio Savioli se ne andò a 88 anni, era il 9 novembre del 2012: lui il nuovo millennio l’aveva raggiunto – non so come dire – a malincuore.
Era un uomo del Novecento, curioso come una scimmia, tanto che, per esercitare la sua infinita voglia di conoscere anche le cose più strane, leggeva l’Enciclopedia Britannica in una versione degli anni Trenta con la costa in cuoio marocchino scuro.
Per me, prima ancora di essere il giornalista e l’intellettuale che ho incontrato all’Unità, era il padre di Lorenzo, un mio amico. In tre, con lui e Gregorio Botta (un amico fraterno approdato con me all’Unità) avevamo “inventato” la Fgci della sezione Ponte Milvio e messo in piedi una macchina di ragazzi matti e velocissimi. Lorenzo era una copia elettrica del padre. A casa loro ci si andava con un po’ di timore, troppi libri infilati anche per le scale di una villetta, un cubo bianco al Villaggio dei Giornalisti.
Nella primavera del 1974 ero finito all’Unità ancora ragazzo, lasciando in sospeso gli esami universitari e pensando di restarci quattro-cinque mesi. Ci sono rimasto fino al 2000, poi ci sono tornato e da lì sono andato in prepensionamento. Insomma, l’ho tirata per le lunghe. Ritrovare Arminio, dopo Ponte Milvio, nei corridoi di via dei Taurini era stato importante. Lui era già “grande” ma ci trattava con amicizia, senza guardarci dall’alto in basso.
Poi ci ho lavorato a lungo, a contatto di gomito, o meglio, di telefono, perché Arminio aveva scelto di andare in pensione giovane (allora si poteva) senza mai mollare il suo lavoro. Chiamava spesso, raccontava le idee che gli erano venute in mente, magari guardando l’International Herald Tribune o qualche rivista inglese o francese, o qualcuno dei suoi strani libri. O anche solo per parlare perché lui era un chiacchierone tremendo, e se lo incrociavi mentre eri pieno di cose da fare, cercavi di non farti bloccare. Io non ci sono mai riuscito.
Il funerale si celebrò in una mattina rigida e poco romana, nel tempietto del cimitero del Testaccio: un pugno di cipressi, erba e lapidi alle spalle della Piramide Cestia dove riposano Antonio Gramsci e Percy Bysshe Shelley, John Keats, Carlo Emilio Gadda e Gregory Corso ma anche Bruno Pontecorvo. Insomma, in bella compagnia. La sala era piena di gente, molta in là con gli anni, qualche compagno dell’Unità, non tanti quanti avrei sperato.
A ricordarlo alcuni vecchi amici che avevano condiviso pezzi importanti della sua vita. Il primo raccontò della guerra combattuta insieme come militari regolari italiani a fianco delle armate inglesi. “Era stata durissima: gli alleati non ci facevano sconti: in prima linea, nei paesini a scovare i cecchini, nelle sacche di resistenza tedesca e fascista c’eravamo sempre noi.” Ricordò i morti ammazzati, l’odore orribile di carne bruciata e di kerosene dei lanciafiamme usati per stanare i soldati dai bunker o dalle cantine.
Poi fu il turno di Citto Maselli che volle ricordare proprio i giorni del ritorno a casa dalla guerra, Arminio aveva appena compiuto ventuno anni. “Ci parlò della faccia di un soldato tedesco morto in un combattimento aspro e crudele appena terminato. ‘Era quasi un ragazzino’”, ci disse, “aveva gli occhi aperti e per un momento mi sono immedesimato, mi sono chiesto che pensasse, che sogni avesse.” E poi invece tirò fuori Ossi di seppia, in quell’edizione con la copertina bianca e strani disegni di animali marini. Il libro che lo aveva accompagnato nella guerra.
Ci parlò a lungo di quanto significassero per lui quelle poesie, ma poi ci disse che c’era un verso che gli sembrava stonato. Non ricordo più quale fosse, ma qual che giorno dopo a casa mia – abitavamo di fronte – c’era un importante critico letterario amico di famiglia.
Vidi dalla finestra in terrazza Arminio e il fratello Aggeo affacciati, li salutai con calore e poi andai dal critico per dirgli che quello lì in terrazza era un mio amico e che, secondo lui, Montale aveva sbagliato un verso. Lui ci pensò un momento e poi mi disse: ha ragione il tuo amico.” Resistenza e poesia, orrore ed ermetismo”, Arminio era così, anche con questo suo modo di passare da un tema, da un tono, all’altro senza metter nulla in mezzo.
Alla fine della cerimonia a Testaccio intervenne Alfredo Reichlin. Alfredo e Arminio avevano condiviso le stanze dell’Unità a via Quattro Novembre e poi a via dei Taurini per molti anni, ininterrottamente dal 1946 fino al 1964, poi più tardi quando Reichlin tornò a fare il direttore. Ma erano amici da prima, da ragazzi. Anzi da ragazzi comunisti. Erano stati insieme giovanissimi gappisti nella Roma occupata.
“Il comando dei Gap”, raccontò Reichlin, “ci aveva chiesto di organizzare un corteo di studenti contro la guerra e l’occupazione. Io e Arminio dovevamo garantire l’incolumità e avevamo in tasca una pistola ciascuno. Avevamo 19 anni e nessuna esperienza. Il corteo ci fu e si sciolse davanti alla basilica di Santa Maria Maggiore. Non era successo nulla e allora ci separammo. Qualche secondo dopo sbucò una pattuglia di due soldati tedeschi, mi presero sottobraccio e mi ordinarono di seguirli. Sapevo che appena avessero trovato la pistola mi avrebbero ammazzato. Fatti pochi passi sentii un grido dietro di noi. I due soldati si voltarono: davanti c’era Arminio con la pistola in mano. Sparò a bruciapelo a uno di loro. L’altro scappò. Arminio mi sostenne e mi fece strada sul marciapiede, in mezzo alla gente terrorizzata. Aveva rischiato tutto e mi aveva salvato. Ecco come era fatto Arminio. Poi né io né lui ne abbiamo più parlato.”
Due uomini che amavano parlare (e scrivere) avevano vissuto questa drammatica avventura e se l’erano tenuta per loro? Incontrai al funerale Lorenzo, con una di quelle giacche sformate di caldo e ruvido Harris Tweed, tanto care al padre (chissà che non gli fosse appartenuta?), e gli chiesi se ne sapesse nulla. Niente, neanche a casa l’aveva mai raccontato.
Oggi siamo abituati a gente che si vanta di tutto, che trasforma la più piccola avventura in una inesauribile fonte di racconti. Loro due avevano visto in faccia la morte, sparato, erano scappati col cuore in gola e avevano deciso di tenerlo per sé. Era stato chissà quante volte un “sottotesto” alle loro parole senza mai diventare esplicito.
Quando se ne andò era un po’ che non ci vedevamo: un paio di anni prima ero andato a casa sua per sentirlo: stavamo preparando degli articoli su Fidel Castro, che secondo le cronache, in quel momento era in punto di morte. L’idea era di ricostruire l’intervista di Arminio al leader cubano di mezzo secolo prima. Poi Castro si riprese, Arminio se ne andò quattro anni prima di lui.
L’intervista a Fidel del 1962 era stata tradotta e stampata integralmente sul New York Times (chissà se furono contrattati i diritti?). In prima pagina.
Agli americani interessava una sola frase, quella in cui il capo della rivoluzione cubana rompeva gli indugi e diceva che sì, il paese aveva scelto il campo socialista. A chi la lesse allora, come a noi oggi, non possono però esser sfuggiti il tono e la qualità della scrittura. Arminio mi raccontò che lui all’epoca era all’Avana da tempo e da giorni cercava di avere conferme per l’intervista chiesta a Fidel. Ma niente, nessuna risposta.
L’incontro avvenne per caso, una notte, in uno degli albergoni americani del centro, rimasti aperti dopo la fuga di Batista e ribattezzato Cuba Libre, nel night club buio, tra musicisti di mambo e ballerine. “Entrò quest’uomo grande scortato da quattro soldati in divisa ancora più grandi di lui, quasi tutti neri. Pensai subito che fosse Fidel, mi avvicinai ma era troppo buio e allora presi un fiammifero, di quelli che le ragazze che vendevano sigarette lasciavano su tutti i tavolini. E glielo accesi in faccia. Ci mancò poco che mi saltassero addosso. Io gli dissi: ‘Ma allora sei tu? Perché non mi rilasci l’intervista che ti ho chiesto da settimane?’. Lui mi riconobbe: ‘Sei tu il togliattiano…’. Non gli andava di farla, aveva in bocca un sigaro, io insistetti, forse anche perché avevo bevuto qualche bicchiere di rum. Alla fine, mi disse di metterci da una parte e parlare. L’intervista durò tutta la notte, in uno stanzone dove venivano a cambiarsi musicisti e ballerine, si toglievano lo smoking o le paillettes e rimanevano a sentirci, ogni tanto intervenivano per dire la loro. Fidel mi chiamava Chico, ragazzo. E io ero più vecchio di lui.”
Quasi un happening tra fumo, rumba e odore di rum. Ne venne fuori una bomba, concentrata in una frase paradossalmente antiretorica: “Tu davvero vuoi scrivere che questa è una rivoluzione socialista? D’accordo, scrivilo pure. Noi non abbiamo paura delle parole. Non dire comunque – come fanno gli americani – che qui c’è il comunismo, perché il comunismo non può esser trovato se non in Russia, dopo 40 anni dalla presa del potere…”.
Arminio la mattina dopo si mise giù a scriverla ma invece di mandarla per telegrafo decise di chiuderla in una busta e spedirla per posta. Voleva risparmiare, e questo è un altro timbro da Unità, oltre che un tratto del suo carattere. A leggerla oggi quell’intervista non ha perso un filo del suo smalto. Il fatto stesso che Fidel usi una frase come “tu davvero vuoi scrivere…” fa capire che il colloquio deve essere stato una specie di corpo a corpo in cui l’intervistatore spingeva l’intervistato verso una conclusione politica logica ma non scontata.
Colpisce soprattutto che Arminio non si sia posto neppure il problema di farla rileggere a Fidel (chi lo farebbe oggi parlando con un capo di Stato, tanto più se il contenuto è così scottante?).
Comunque, la bomba esplose e accelerò la decisione americana di sostenere l’avventura dei profughi anticastristi. Quando ci fu lo sbarco alla Baia dei Porci due mesi dopo, Arminio era partito per l’Argentina. Fu rispedito indietro con un volo notturno e avventuroso dal Messico.
“Arrivai a Cuba atterrando in una pista militare non so dove. Mi venne a prendere una jeep, con a bordo un ufficiale dei barbudos che mi guardava storto e rideva sotto i baffi. ‘Tu sei l’italiano?’, mi disse, ‘quello dell’intervista? Se ti becca Fidel ti pianta una palla in testa’. Scherzava, ma poi mica tanto.”
Arminio giovanissimo era stato in prima linea nella Resistenza. Era nel gruppo dei gappisti a via Rasella quando era ancora uno studente di liceo. Lui non ce ne ha mai parlato eppure a noi ragazzi dell’Unità arrivavano racconti strambi ed epici. Dicevano che fosse nella retroguardia, tra quanti, quasi all’altezza di Palazzo Barberini dovevano coprire la fuga di quelli che avevano fatto esplodere il carretto bomba contro i soldati altoatesini del Polizeiregiment Bozen.
Quando fu il momento, si trovava con una bomba a mano da lanciare: con la sicura già tolta, prima di scagliarla si perse con lo sguardo verso il cielo mormorando ai suoi compagni: “Guarda che colori ci sono”. Leggenda? Forse, ma io ce lo vedo benissimo a farlo.
Uso Arminio per capire anche quale fosse il rapporto tra questi comunisti e il “comunismo reale”. La sua teoria – ci ha scritto un libro e anche degli articoli per le pagine culturali dell’Unità, uno dei quali io stesso titolai “Stalin il Terribile” – era che Stalin non fosse un leader comunista ma l’ultimo di una stirpe di imperatori orientali, un erede di Attila, di Gengis Khan o di Ivan il Terribile.
Che tutto quello che noi avevamo immaginato come comunismo aveva a che fare con tutt’altro, con la grande tradizione della tirannide asiatica. Credo che avesse indovinato più di quanto non ci sembrasse allora. Quello che Arminio non faceva mai era di guardare il nesso tra Stalin e Lenin e la storia del comunismo sovietico. Eppure, viveva tranquillamente all’interno di un partito che coltivava – o almeno aveva a lungo coltivato – un non gridato culto dell’Urss, quantomeno a livello delle masse.