Le proposte dei dem

Intervista a Roberto Morassut: “Elezione diretta, sì ma del Presidente della Repubblica”

«Questa non è più una Repubblica parlamentare in senso pieno. La proposta di cancellierato del Pd è perfetta, ma parla ai giuristi. Va cercata una sintesi tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli - 13 Febbraio 2024

CONDIVIDI

Intervista a Roberto Morassut: “Elezione diretta, sì ma del Presidente della Repubblica”

Roberto Morassut, parlamentare PD e membro della Direzione nazionale, c’è ancora spazio nel “nuovo PD” per la memoria, gli ideali, le lotte di quello che è stato Il PCI di Enrico Berlinguer. di cui si è discusso, sabato scorso a Firenze, nella riuscitissima iniziativa sulla FGCI degli anni ’70-’80 di “Allonsanfàn”?
La mostra su Enrico Berlinguer al mattatoio di Testaccio ha riscosso uno straordinario successo anche tra tanti giovani che non hanno conosciuto né Berlinguer né quelle stagioni politiche ma che, evidentemente, sentono il bisogno di un qualche esempio limpido, integro che animi la politica, l’impegno civile e che oggi è difficile trovare. In parte per la particolarissima personalità di Berlinguer, in parte perché certe condizioni generali non ci sono più e non potranno riprodursi come allora…. Non c’è più “quel” popolo, non c’è più “quel” mondo con la spinta ideale di un socialismo diverso, non c’è più quella Repubblica che, seppure in declino – come Berlinguer avvertiva da tempo – era ancora fondata su forti organizzazioni di massa, politiche, partitiche, sindacali. Era una società più compatta, indiscutibilmente, pur con le sue fragilità, ingiustizie e squilibri. Berlinguer è stato ed è ancora l’eroe che muore sul campo per un’idea, fondata sulla giustizia sociale. Questa semplicità parla ancora tantissimo ai giovani. Arrivo a dire che come “eroe tragico” parla alla coscienza profonda di una generazione che vive sulla sua pelle, come non mai, il senso di una tragedia epocale che sembra profilarsi nella incertezza delle prospettive di vita, nella crisi climatica, nell’apparente dispersione delle reti di comunità che contrastano la nostra naturale solitudine. Però non bisogna precipitare nella nostalgia. Oggi la democrazia è in crisi, una crisi profonda. Tre agenti, tra loro legati, la attaccano da dentro.

Quali?
In primo luogo il venir meno del rapporto tra democrazia e prosperità diffusa perché le diseguaglianze sociali sono cresciute in modo eccessivo e velocemente rendendo la democrazia “inutile” per larghe masse. In secondo luogo il declino di ogni senso di utopia terrena ma anche ultraterrena. Appare lontano, se non impossibile, un modello di Stato o di regime democratico che sia in grado di riequilibrare i rapporti sociali favorendo una maggiore giustizia e, allo stesso tempo, i progressi fenomenali della scienza e della tecnologia, fanno cadere il velo anche di un riscatto ultraterreno e la crisi delle religioni è un ulteriore fattore di liquefazione delle reti comunitarie che favorisce la solitudine. In terzo luogo il grande progresso della tecnica e del macchinismo automatizzato svuota la componente umana dal lavoro manuale e intellettuale e rende assai più difficile l’applicazione delle complessità procedurali che una democrazia comporta e deve necessariamente comportare. Cosa ne facciamo dell’uomo? Del suo spirito creativo, della sua vocazione al sogno, della sua naturale particolarità di essere un “politikon zoon”, un animale politico, come diceva Aristotele?
Ci sono davanti a noi sfide fondamentali e sono convinto che non c’è una carta risolutiva ma che occorre procedere per sperimentazioni, seminando esperienze, tentativi che ci portino in un tempo utile a sconfiggere la travolgente crescita delle demagogie, delle oligarchie, delle democrature, della finanziarizzazione dei cuori che oggi caratterizza il pianeta.

Qual è il centro di questa sfida epocale?
Il cuore di questa sperimentazione è l’Europa perché la democrazia è sorta qui, esiste qui nella sua forma più evoluta e si sta rinnovando qui, sotto l’impatto di queste sfide e forse anche per questo l’Europa è l’obbiettivo di nuove guerre che si riaccendono ai suoi confini o nel suo stesso cuore. Guerre, rispetto alle quali bisogna dire parole chiare e Elly Schlein le ha dette: va condannata ogni invasione e lesione della libertà e integrità nazionale. Va condannato il terrorismo come forma di lotta che produce morti nella popolazione civile. Ma ogni reazione deve avere una proporzione e non può essere l’innesco di ulteriori violenze contro i civili. Noi stiamo assistendo al massacro di migliaia di civili a Gaza che è inaccettabile. La lotta contro Hamas non è un problema solo di Israele ma dell’intera comunità internazionale. Va sconfitta l’idea, purtroppo sempre discutibile, che si possono sacrificare migliaia di civili per una causa “giusta”. La proporzione del danno e dell’offesa ricevuta deve essere alla base di una civiltà delle relazioni internazionali e dei conflitti in un mondo multipolare e senza un governo efficace come ora.
Un’Europa fragile e indifesa, smagliata. Questo lento tentativo di costruire il “nuovo” mentre il “vecchio” rapidamente muore è un ulteriore drammatico fattore di debolezza della democrazia. In questo contesto europeo c’è la vicenda italiana, che ha la storia che ha di una democrazia fragilissima, di uno Stato giovane e pieno di fratture antiche e recenti.

Qual è la mission di questa destra?
Oggi la destra sta tentando un assalto alle strutture essenziali della Repubblica parlamentare, cosi come l’abbiamo conosciuta e praticata. Questo assalto è ambizioso di successo, oltre che per i numeri della rappresentanza parlamentare, per il fatto che da trent’anni noi siamo calati in una eterna transizione da una certa forma repubblicana ad un’altra che non si e mai definita e che è diventata essa stessa una forma distorta, deformata, alterata, dove la rappresentanza della volontà popolare è intubata, dove gli equilibri tra i poteri sono saltati o confusi, dove le forme essenziali dell’associazionismo politico – i partiti – sono liquefatte e dominate per lo più da ristretti gruppi sempre uguali e sempre più sclerotizzati. Dovremmo dircelo con più chiarezza e onesta tra di noi: questa non è più una repubblica parlamentare in senso pieno. Resistono brandelli di procedure se non di riti, isole di coerenza procedurale ma la sostanza è saltata perché il Parlamento ha perduto la sua centralità, l’Esecutivo domina il campo ma non ha un mandato temporale pieno per svolgere questo ruolo e lo fa debolmente e contraddittoriamente, la Magistratura è penetrata dallo spirito di corrente che consuma i partiti che cambiano volto stagionalmente ma non cambiano gli apparati di gruppo che li tengono alla briglia. Mi domando se noi possiamo difendere tutto questo e se pensiamo che difendendo tutto questo fermeremo l’assalto della destra che culminerà in un referendum molto pericoloso e che noi non dobbiamo assolutamente perdere perché, allo stato delle cose presenti, vale il motto “primum vivere”.La destra ha messo in campo due cose storpie ma paradossalmente dinamiche…

Vale a dire?
Il premierato e l’autonomia differenziata.
La prima si presenta come una nuova opportunità democratica e in parte lo è: inutile negarlo. La seconda è, secondo me, il male assoluto che va sconfitto senza remissione di peccato. Bisogna che ci mettiamo in una posizione di combattimento diversa da quella attuale e provo a dire. La proposta del “cancellierato” che noi avanziamo è perfetta ma parla ai giuristi e rischia di nascondere, non volendo, la solita vocazione del PD – che ci ha fatto molto male- che poi in Parlamento si manovra “limando” il voto popolare. Io penso che noi dovremmo prendere atto che c’è, ormai depositata nel senso comune, una disposizione a scegliere il vertice delle istituzioni ma che questo non dovrebbe essere il premier, bensì il Presidente della Repubblica e che sia meglio per l’Italia disporsi ad una riforma costituzionale più simile al modello francese che a quello tedesco: un sistema Semi-Presidenziale. Non credo che basti dire che noi vogliamo una riforma elettorale che restituisca potere di scelta agli elettori e che non vogliamo l’uomo solo al comando.

Perché?
In primo luogo perché anche la destra dirà la prima cosa e non potrà non dirla, in secondo luogo perché la nostra vita interna è fatta di elezione diretta e di primarie interne e continuamente eleggiamo “persone” con voto popolare diretto. Il problema è che accanto al voto del Presidente della Repubblica, occorre un complesso impianto che contempli una tutela dei principi della Costituzione, una legge elettorale a doppio turno con ballottaggio ed una legge sui partiti che ne ricostruisca un profilo nel sistema politico. Dobbiamo tentare la strada di una sintesi tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa.

La destra è disposta a discutere di questo?
La Costituzione si riforma con gli interlocutori reali che hai e noi abbiamo questa destra oggi. Preferisco discutere con una forza politica radicalmente avversaria ma nazionale, come Fratelli d’Italia, che con una forza disgregatrice come le Lega e credo dovremmo lavorare per dividerli, dinamizzare la nostra proposta, aprire un tavolo che cambi il quadro del confronto allungandone i tempi e attestarci su una linea più avanzata nel caso di un referendum. Dentro tutto questo trova spazio il tema dei partiti e di nuove forme associative.

Che sia “contendibile”, è dimostrato. Ma il PD è anche “riformabile”?
Il PD è l’unico partito in campo che ha ancora il profilo di un’organizzazione politica non autoritaria e personale ma questo non può bastarci. La nostra sperimentazione è doverosa nel quadro evolutivo o involutivo della democrazia nel mondo e nello specifico risolversi che sarà della vicenda italiana. No. Il PD non è un organismo “brezneviano”. Non vi sarei rimasto. Ma ha enormi limiti nello sviluppo e nello svolgimento di una piena vita democratica. Dobbiamo domandarci questo: dove sono le masse e dove sono quelle masse che fanno politica. Perché, per me, il termine “masse” ha ancora un senso e forse ne ha di più per il suo carattere indistinto… Nella mostra di Berlinguer è facile riconoscerle in quegli operai dell’Alfasud o della Fiat, negli edili romani, nei giovani studenti di allora dove ero anche io ….. Ma il lavoro era ancora compatto e produceva sovrastrutture compatte anche se già il processo di scioglimento di questi enormi iceberg era iniziato e Berlinguer lo aveva capito con la sua costante attenzione ai “movimenti”. Ed era un processo iniziato nel 1968 e che, per stratificazioni successive, è arrivato fino a oggi in forme competitive o conflittuali verso i partiti rivendicando autonomia politica e organizzativa. Oggi, se vuoi ricostruire dei soggetti politici di massa che siano alla base di una nuova Repubblica democratica con forme dirette e rappresentative insieme, devi aggregare reti, in forme dinamiche e flessibili, aprire i ranghi, tenere fermi gli ideali ma mutare spesso le forme, Devi essere un “partito- movimento”, come si discute in Francia da anni, stare sul crinale dello “strutturato” e del mobile. E noi dovremmo farlo attraverso un processo costituente che invece vedo annunciare, evocare ma mai costruire. Questa innovazione non serve solo a noi ma alla Repubblica tanto quanto il “Partito nuovo” di Togliatti servì ai comunisti ma anche a inverare i principi della Costituzione e a spingere per la loro attuazione.

13 Febbraio 2024

Condividi l'articolo