Uno dei pochi aspetti positivi degli emendamenti presentati dal Governo al progetto di revisione costituzionale che vorrebbe introdurre l’elezione diretta del presidente del Consiglio riguarda l’introduzione del limite massimo dei suoi mandati.
Accogliendo infatti le critiche – giuridiche e politiche – che avevano anche su questo punto subissato il progetto iniziale, si propone ora che il presidente del Consiglio verrebbe eletto “per cinque anni per non più di due legislature consecutive, elevate a tre qualora nelle precedenti abbia ricoperto l’incarico per un periodo inferiore a sette anni e sei mesi” (in pratica considerando intera la legislatura che sia durata oltre la sua metà).
La presentazione di tale emendamento lasciava indurre che tutto il centrodestra avesse – seppur tardivamente – acquisito la consapevolezza che un sistema di governo può dirsi realmente democratico se chi ricopre cariche elettive monocratiche non possa esercitarle in eterno, finché venga rieletto, ma debba incontrare dei limiti temporali oltre cui non può ricandidarsi.
Invece c’eravamo illusi. La Lega per Salvini, infatti, ha presentato in commissione Affari costituzionali del Senato due emendamenti al decreto legge c.d. elezioni (n. 7/2024) per elevare da due a tre il limite dei mandati consecutivi per tutti i Presidenti di Regione e i Sindaci (e non solo, come prevede il testo, per quelli dei Comuni con meno di 15 mila abitanti). Di conseguenza, costoro potrebbero rimanere in carica consecutivamente al massimo per quindici anni: un’eternità.
Ovviamente sono emendamenti pro domo Lega, presentati per consentire principalmente ai quattro governatori del centrodestra in scadenza di secondo mandato (Zaia, Fontana, Toti e Fedriga) di potersi ricandidare (e magari tenere lo stesso Zaia, peraltro già in carica dal 2010, lontano da Roma…).
Ma al di là di tale finalità politiche, perché deve esserci tale limite? Non si offende così l’intelligenza degli elettori che avrebbero il diritto di rieleggere quante volte vogliono il Sindaco o il Presidente della Regione se gode della loro fiducia perché hanno dimostrato di aver ben governato? Del resto non accade così anche per i parlamentari?
Cominciamo subito col dire che è del tutto evidente, tranne che per i demagoghi in servizio permanente, che chi fa parte di assemblee elettive – come le camere nazionali o i consigli regionali o comunali – non può essere minimamente paragonato a chi, ricoprendo una carica come quella di presidente della Regione o di Sindaco, è dotato di poteri più ampi e di diversa natura.
Occorre dunque distinguere tra l’elezione di un organo monocratico, qual è il capo dell’esecutivo in grado di decidere da solo, da quella di un organo rappresentativo collegiale, in cui decide la maggioranza.
Sgombrato il campo da questo improprio paragone, il motivo per cui occorre un limite ai mandati dei Presidenti e dei Sindaci va ricercato proprio nell’idea di democrazia che, come ci ricorda il primo articolo della nostra Costituzione, è governo del popolo ma nelle forme e entro i limiti previsti.
Non, quindi, un potere assoluto ma limitato; altrimenti non è democrazia ma governo senza regole e, dunque, populismo. In materia elettorale ciò significa impedire che si possano candidare e essere elette persone che, per le cariche ricoperte o il potere acquisito, possono condizionare la libera volontà degli elettori.
Il fine è dunque evitare il consolidamento del sistema di potere (economico, politico, mediatico) che, al di là delle buone intenzioni personali, inevitabilmente deriva dal ricoprire una carica di governo per così lungo tempo.
Lo ha ricordato, di recente la Corte costituzionale che, dichiarando illegittimi i due articoli di una legge sarda che avrebbero consentito ai Sindaci dei comuni fino a 5 e 3 mila abitanti di svolgere rispettivamente tre e quattro mandati, ha affermato che il limite di due mandati consecutivi costituisce il “punto di equilibrio tra il modello dell’elezione diretta dell’esecutivo e la concentrazione del potere in capo a una sola persona che ne deriva»: sistema che può produrre «effetti negativi anche sulla par condicio delle elezioni successive, suscettibili di essere alterate da rendite di posizione” (sentenza 60/2023).
Il limite del doppio mandato è dunque il punto di bilanciamento individuato dal legislatore tra la valorizzazione del patrimonio di esperienza del Presidente della Regione uscente al fine della realizzazione del suo programma di governo (ai fini del quale dieci anni sono più che sufficienti) e le esigenze di garanzia del sistema, al fine di prevenire forme di eccessiva concentrazione e personalizzazione del potere esecutivo (Frosini).
Non a caso in tutte le democrazie in cui il vertice del potere esecutivo è eletto direttamente dagli elettori (come il Presidente della Regione o il Sindaco) si vieta sempre il terzo mandato consecutivo (Austria, Francia, Portogallo, Polonia, Finlandia, Grecia, Israele, Estonia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Argentina, Brasile) o in assoluto (Stati Uniti, Irlanda, Bulgaria, Croazia, Romania, Turchia, Sudafrica).
Così come non è affatto un caso che l’abrogazione del limite del doppio mandato abbia sempre segnalato l’involuzione autoritaria del sistema presidenziale di governo. Così è stato in Venezuela nel 2009 per consentire la rielezione di Chavez, in Nicaragua nel 2014 per rieleggere Ortega, nel Salvador nel 2024 a favore di Bukele, in Egitto (2019) per consentire ad al-Sisi di restare in carica fino al 2030 e, non ultimo, in Cina nel 2018 per consentire il terzo mandato a Xi Jinping.
Il limite dei mandati quindi rientra tra i principi del costituzionalismo, secondo cui il potere politico – tanto più se concentrato nelle mani di una sola persona eletta – va limitato affinché non se ne abusi a scapito della libertà, consentendo piuttosto una salutare alternanza al potere.
Proprio per questo tale limite deve valere per tutti i livelli di governo: non solo nazionale, ma anche regionale e locale dove anzi è più elevato il rischio di creare inattaccabili sistemi clientelari di potere. Perché, per quanto appaia paradossale, una democrazia può anche morire per troppa democrazia.
Ed a chi, in nome della glorificazione della sovranità del popolo, continua a ritenere che esso possa per quanto volte vuole eleggere il suo Capo, va ricordato che Platone, a chi gli chiedeva cosa fare se la polis fosse sempre governata da un uomo di grande saggezza, intelligenza e valore morale, rispose: “gli cingeremo il capo di allori lo riempiremmo di onori e lo accompagneremmo fuori dalle mura della città”. Perché la democrazia non ha bisogno di eroi.