La guerra in Medioriente

“Su Israele e Gaza il calendario è fermo al 7 ottobre, il prima e il dopo è tabù”, parla Riccardo Noury

«Non c’è una storia precedente di oppressione, occupazione, contro i palestinesi e non c’è una storia successiva di crimini di guerra e punizioni collettive. Chi denuncia le violazioni commesse da Israele è accusato di antisemitismo»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli - 16 Febbraio 2024

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Il portavoce Amnesty International Riccardo Noury
Il portavoce Amnesty International Riccardo Noury

La tragedia di Gaza e i testimoni “scomodi”. L’Unità ne parla con Riccardo Noury, storico portavoce di Amnesty International Italia.

“Fuori di qui, sei contro Israele”. Così l’Unità ha titolato in prima pagina martedì, la decisione presa dalle autorità israeliane di impedire l’ingresso nel Paese alla Relatrice speciale delle Nazioni Unite per i Territori occupati, chiedendone al contempo la rimozione. L’accusa è pesantissima: antisemitismo.
Come ha ricordato la stessa Francesca Albanese, non è una novità. Analoghe richieste, sue e di coloro che l’hanno preceduta nell’incarico, Israele le respinge dal 2008. Le autorità israeliane hanno un costante atteggiamento di chiusura nei confronti degli organismi internazionali di monitoraggio sul rispetto dei diritti umani.
Non è l’unico caso. Ad Amnesty International viene impedito di avere nostro personale a Gaza. Abbiamo chiesto ripetutamente alle autorità israeliane il permesso di entrare ma le richieste sono state respinte o del tutto ignorate. Non che questo ci impedisca di fare ricerca, ma è un atteggiamento ostile che ci preoccupa.

Non è la prima volta che la dottoressa Albanese finisce nel mirino degli “ultras” d’Israele. In passato, Amnesty si fece promotrice di una lettera aperta, che raccolse tantissime e qualificate adesioni, in sua difesa. Denunciare l’apartheid in Cisgiordania o la mattanza a Gaza è off limits, pure a Sanremo e in Rai?
Lo schema è il solito: criticare le violazioni dei diritti umani commesse da Israele nei confronti dei palestinesi e difendere i diritti umani dei palestinesi sono pressoché automaticamente considerate forme di antisemitismo. Intendiamoci, l’antisemitismo è in sé una violazione dei diritti umani, è presente anche nel nostro paese e periodicamente rigurgita, come testimoniano i Barometri dell’odio di Amnesty International. Ma definizioni sempre più ampie di antisemitismo, come quella prodotta dall’International Holocaust Remembrance Alliance, fatta propria da decine di stati tra cui l’Italia, rischiano di produrre effetti negativi sulla libertà d’espressione e sulla ricerca accademica. La stessa accusa di antisemitismo è stata mossa nei confronti di coloro che hanno espresso l’opinione che la storia in Medio Oriente non sia iniziata il 7 ottobre 2023. Si badi bene che chi ha condannato i crimini di guerra commessi da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi in quella data – parliamo dell’uccisione di massa di circa 1200 civili israeliani e della presa in ostaggio di oltre 200 di loro – non lo ha fatto a bassa voce, tra parentesi, di sfuggita, in una frase incidentale o en passant. Lo ha detto chiaro e tondo. Poi ha fatto una pausa, mettendo un punto e andando a capo, per poi parlare di quello che era successo prima e di ciò che stava succedendo dopo. Per molti, invece, il calendario sulla parete è fermo al 7 ottobre scorso. Non c’è una storia precedente di oppressione, discriminazione, occupazione, spossessamento da parte dello stato d’Israele contro i palestinesi e non c’è una storia successiva di crimini di guerra a ripetizione e punizioni collettive, come i trasferimenti forzati, dell’esercito israeliano contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza. Ecco, sfogliare il calendario avanti e indietro pare un tabù, a tal punto da stigmatizzare, tramite un comunicato stampa letto in diretta tv, artisti che hanno preso la parola chiedendo il cessate il fuoco o di fermare il genocidio. Concordo con la consigliera d’amministrazione della Rai Francesca Bria: in quel comunicato sarebbe stato necessario esprimere solidarietà tanto alle vittime israeliane quanto a quelle palestinesi. Ma, evidentemente, il calendario fermo al 7 ottobre non lo prevedeva.

La Corte di giustizia internazionale dell’Aia ha ritenuto che vi siano elementi di diritto fondati per aprire un procedimento per genocidio nei confronti d’Israele. Come definirebbe Amnesty International ciò che sta accadendo da oltre quattro mesi nella Striscia di Gaza?
La Corte di giustizia internazionale delibererà più avanti se Israele sia stato responsabile della violazione della Convenzione sul genocidio. Intanto, nella sua sentenza preliminare del 26, ha ritenuto di dover andare avanti sulla denuncia presentata dal Sudafrica, imponendo tra l’altro a Israele sei misure provvisorie per proteggere la popolazione di Gaza dal rischio di genocidio.
Secondo Amnesty International, quel rischio c’è, concreto e imminente, soprattutto nel caso in cui l’esercito israeliano procederà coi piani di un’operazione di terra a Rafah: il governatorato più a sud della Striscia di Gaza, meno di 70 chilometri quadrati in cui è stipato quasi un milione e mezzo di persone. Davanti a loro hanno il muro di sicurezza eretto dal governo egiziano, dietro di loro le forze israeliane. La domanda collettiva è “Dove dovremmo andare, ora?”. La risposta manca. Negli altri conflitti tra Israele e Hamas dal 2008 a oggi non si era mai arrivati a un livello e a una dimensione di morte e di distruzione come quelli attuali. Il conflitto più lungo, tra i precedenti, era durato meno di due mesi: un tempo enorme, ma oggi siamo a oltre il doppio. La risposta di Israele ai crimini di guerra commessi il 7 ottobre da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi è stata spietata. Almeno il cinque per cento della popolazione di Gaza (tra morti, feriti e dispersi) è stata colpita direttamente dal conflitto; oltre 1000 minorenni hanno perso uno o più arti inferiori o superiori; oltre l’85 per cento della popolazione, poco meno di due milioni, è stata costretto a evacuare su ordine dell’esercito israeliano, che bombarda regolarmente proprio i luoghi “sicuri” dove gli sfollati sono stati costretti ad andare; mezzo milione di persone sono letteralmente alla fame e oltre il 90 per cento della popolazione soffre di malnutrizione acuta; oltre il 70 per cento delle abitazioni della Striscia di Gaza e buona parte delle infrastrutture civili fondamentali sono state distrutte o danneggiate; sono stati uccisi oltre 300 operatori sanitari e non c’è una sola struttura ospedaliera che sia completamente operativa.

Il governo italiano non ha ritenuto di esprimere una posizione ufficiale riguardo gli attacchi alla Relatrice, italiana, delle Nazioni Unite. Questione di opportunità o di opportunismo?
Va chiarito un aspetto: i relatori e le relatrici speciali delle Nazioni Unite non rappresentano gli stati di appartenenza e svolgono il loro mandato nella propria capacità personale. Da questo punto di vista, non è che lo stato di appartenenza debba automaticamente prendere le difese di una relatrice speciale; magari qualche espressione di solidarietà avrebbe fatto bene. Ma a maggior ragione è insensato che venga attaccata da rappresentanti delle istituzioni italiane o addirittura se ne chiedano le dimissioni. C’è poi un problema: in Italia il livello di conoscenza dei fatti del mondo fuori dall’Europa e soprattutto del diritto internazionale dei diritti umani è generalmente abbastanza scadente. Sono temi relegati allo “specialismo”, agli “esperti”. Ma proprio quando gli “esperti” sono invitati a prendere la parola, gli “inesperti” li attaccano. Ho assistito ad audizioni parlamentari e a dibattiti televisivi in cui Francesca Albanese è stata presa di mira da persone ignare di cosa sia il diritto internazionale umanitario e che, tuttavia, alzando la voce e facendo mansplaining, si cimentavano nello spiegarle come stanno le cose. Non è stato l’unico caso.

In questi anni, Amnesty International, col supporto di organizzazioni israeliani per i diritti umani importanti, come ad esempio B’tselem, ha documentato gli effetti devastanti della massiccia colonizzazione israeliana della Cisgiordania. Anche qui, le parole sono sostanza. Perché si fa fatica, in certa stampa, a definire pogrom gli attacchi armati dei coloni contro villaggi palestinesi?
Giorni fa, in un’intervista, mi è stato chiesto se fossi d’accordo nel definire Rafah un “campo di concentramento”. Ho risposto che non è il caso di usare, per estensione, parole che hanno un significato storico ben preciso. “Pogrom” è una parola che richiama le sanguinose sommosse contro gli ebrei tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo in Russia e altrove. Ha un’origine ben precisa. Quella parola la stanno usando le organizzazioni israeliane per i diritti umani, che sono le più intitolate a usarla, per definire gli attacchi dei coloni contro i palestinesi della Cisgiordania occupata. Va bene così.Al di là dell’uso delle parole, all’ombra della guerra di Gaza, la popolazione palestinese della Cisgiordania occupata e di Gerusalemme Est occupata è il bersaglio di una campagna di violenza sfrenata dell’esercito israeliano e dei coloni. Lì, nel 2023, le forze israeliane hanno ucciso almeno 507 palestinesi, 81 dei quali minorenni: 299 di queste 507 uccisioni sono avvenute dopo il 7 ottobre, nell’indifferenza generale. Dal 1° al 29 gennaio di quest’anno l’esercito israeliano ha ucciso altri 61 palestinesi, tra i quali 13 minorenni. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, il 2023 è stato l’anno col più alto numero di vittime palestinesi in Cisgiordania da quando, nel 2005, quell’organismo ha iniziato a tenerne conto. Il 2023 è stato peggiore del 2022, che a sua volta era stato l’anno peggiore dal 2005. Quante altre centinaia di morti dovremo contare alla fine del 2024?

16 Febbraio 2024

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