Il cimitero Mediterraneo
Perché il Mediterraneo è un cimitero, come siamo finiti a difendere i confini invece di salvare i naufraghi
Sei militari andranno a processo per la strage dei bambini. Il Mediterraneo centrale è un cimitero perché l’ordine è ‘difendere i confini’ non ‘salvare i naufraghi’. Appello alla gente di mare della Guardia Costiera: su la testa! Voi che la gente la salvate, ribellatevi e parlate!
Editoriali - di Luca Casarini
Disastro colposo e omissione di soccorso. Sono i reati per i quali il pubblico ministero Capocci, quello che ha in carico l’indagine sui mancati soccorsi ai migranti affogati a Steccato di Cutro, si prepara a chiedere il rinvio a giudizio per sei tra ufficiali e sottufficiali della Guardia di Finanza e della Guardia Costiera in servizio quella notte maledetta. Sono coloro che componevano le due sale operative, quelli che avevano materialmente il compito di soccorrere e non l’hanno fatto.
Che la strage di Cutro, con i suoi 94 morti innocenti, con i suoi bambini affogati a pochi metri dalla riva, fosse evitabile, l’hanno detto in tanti, un minuto dopo a partire dai pescatori, dai marinai, dagli abitanti della cittadina calabrese divenuta un simbolo di tante altre stragi di innocenti che tracciano una storia triste e terribile del Mediterraneo dei nostri tempi.
Quel “si poteva evitare”, che fin da subito appariva chiaro a chi qualcosa di mare ne capisce, è stato trattato dal governo come “l’ennesima speculazione ideologica di chi non porta rispetto per la gloriosa tradizione della nostra guardia costiera e guardia di finanza”.
Salvini e Piantedosi, e poi via via, tutta la sfilata dei ministri dietro alla Meloni, non avevano altra preoccupazione che questa: scagionare gli apparati militari sotto le loro dirette dipendenze senza aspettare nemmeno che tutti i corpi fossero restituiti dal mare di Calabria. E dunque, attraverso questa difesa d’ufficio di cattivo gusto, scagionare se stessi.
Fuori dai riti cinici e disgustosi della politica politicante, questa sì capace di speculare fino a trasformare perfino una strage in una passerella governativa, l’indignazione e il dolore crescevano tra le persone normali: il palasport che si riempiva di bare richiamando le scene della strage di Lampedusa del 2013, non si poteva cancellare con fiumi di parole.
A dieci anni dalla strage dell’isola siciliana, tutte le lacrime di coccodrillo versate ad ogni anniversario da governi e cariche istituzionali, apparivano per quello che sono sempre state: la fiera dell’ipocrisia. Il “mai più”, pronunciato da volti contriti di onorevoli rappresentanti del parlamento, si frantumava davanti alla stessa scena, dieci anni dopo.
Quelle bare sistemate tutte in file ordinate, sono l’unica cosa che resta del nostro Mediterraneo, da dieci anni a questa parte, ogni volta. Bare che andrebbero messe tutte in fila, diecimila, ventimila, quarantamila, poste una dietro l’altra per collegare Cutro, e Lampedusa, con Palazzo Chigi. Una dopo l‘altra, fino a giungere davanti ai palazzi del “potere”, il poter fare, e il poter non fare. Il poter soccorrere, e il poter fare morire.
Ma un politico di razza, per come funziona oggi, deve essere capace di saper utilizzare anche le tragedie per poter promuovere sé stesso: invece di esprimere cordoglio, e vergogna, per una strage di quelle proporzioni e che immediatamente certo si poteva almeno definire come causata “oggettivamente da qualcosa che non ha funzionato nel nostro sistema di soccorso”, il genio dell’attuale Ministro degli Interni ha prodotto l’accusa alle vittime.
“E’ colpa di chi parte, non nostra, se poi morite”. I peluche dei bimbi morti, che galleggiavano davanti alla spiaggia di Cutro, trasformati in uno spot per dissuadere le persone migranti che tentano di fuggire dagli inferni nei quali sono finiti.
E tutto questo, sapendo, perché un ministro degli interni lo sa prima quello che poi, un magistrato, nonostante i tentativi di depistaggio, è riuscito ad accertare, sapendo bene che le cose non erano così limpide.
Quelle parole di Piantedosi, pronunciate a favore di telecamere davanti a quel pezzo di mare pieno di cadaveri, contro le vittime, contro i loro familiari sopravvissuti e distrutti dal dolore, resteranno impresse come l’immagine delle bare allineate.
La qualificazione del reati, “disastro colposo” e “omissione di soccorso”, che saranno attribuiti a vario titolo ai sei militari in base ai loro ruoli operativi quella notte, descrive più in profondità e con riscontri minuziosi ed oggettivi, quel “si poteva evitare” che era emerso solo guardando il mare, quel pezzo di costa, e sentendo i racconti dei primi soccorritori, dei pescatori, rimasti soli a soccorrere dalla spiaggia per oltre un’ora, nonostante avessero chiamato guardia costiera e carabinieri.
La Guardia Costiera già sapeva. Anche la Finanza ovviamente. Ma forse, in particolare i finanzieri che avevano fatto rientrare la loro vedetta, la 5006, invece che lanciare il soccorso del caicco stipato di migranti, una volta preso atto del disastro, il pensiero è diventato quello di coprire le tracce, di cancellare prove.
Dal server della finanza sono “sparite” le registrazioni delle comunicazioni tra le due sale operative. Il magistrato ha dovuto far sequestrare telefoni e computer personali, per poter ricostruire quelle ore e le conversazioni tra loro. I brogliacci operativi, che devono essere compilati dagli ufficiali in servizio, manomessi.
Questa attività dimostra la consapevolezza degli indagati, di aver provocato un disastro, non di averlo solo visto. In mare le tragedie possono accadere. Ma se uno fa di tutto perché non accadano, non ha nulla da nascondere. E qui, la prassi e non i manuali, gioca un ruolo fondamentale e non è “colpa” degli attuali indagati, che forse saranno gli unici a pagare.
La prassi deriva dal “modus operandi” sul campo del personale operativo, e quella che ha causato la strage, riguarda la predominanza delle attività di polizia su quelle di soccorso in mare quando si tratta di migranti.
Se ci fosse stata una barca a vela con dei turisti in difficoltà, le motovedette non sarebbero rientrate e rimaste in porto ad aspettare. Se ci fosse stato un mercantile o un peschereccio in avvicinamento ad una zona costiera “morfologicamente difficile”, quei militari avrebbero fatto di tutto. La stessa Guardia Costiera, non avrebbe delegato a nessun’altro, anche fosse stata la Finanza con un mezzo già in mare, l’attività di monitoraggio e l’eventuale lancio di un’operazione di assistenza.
Ma si trattava di migranti. Lo sapevano dall’inizio, e dunque, meno importanti dal punto di vista della salvaguardia delle loro vite, e più importanti invece dal punto di vista della violazione delle leggi sull’immigrazione. Già questo spiega, banalmente, perché la Guardia Costiera “si fida” di ciò che gli racconta la Finanza.
E’ cosa loro, la “protezione dei confini”. Questa ossessione, proteggere i confini invece che le persone, ha causato la strage. Di certo c’è una responsabilità individuale di chi, come quei militari, ha “sottovalutato i rischi”. Ma non è una imperizia professionale. E’ un modo di fare e di interpretare la realtà che deriva da un decennio di “indirizzi operativi” dati dalla politica. Lo chiamano “Law Enforcement” e lo affiancano all’attività di “Search and Rescue”.
Il controllo di polizia ha preso il sopravvento, perché le donne, gli uomini e i bambini che sono in mare, sono “clandestini”. Anche il linguaggio burocratico si adegua all’ossessione politica. “Migranti in transito”, non naufraghi. E quella notte, e chissà quante altre notti o giorni in altrettante tragedie, si controllavano i confini, non la barca piena di gente che si sarebbe schiantata di lì a poco quasi a riva.
Questa logica ha prodotto anche l’inizio della criminalizzazione delle Ong del soccorso civile in mare. “Come facciamo a compiere indagini sugli scafisti, se i migranti vengono soccorsi dalle Ong e noi non possiamo accertare chi trasborda, o chi conduce il barcone?”. Erano questi gli interrogativi che agenti dei servizi, alti ufficiai di polizia, ponevano ai funzionari della Direzione centrale antimafia, già dal 2016. Il soccorso intralcia il law enforcement.
Le convenzioni internazionali intralciano la protezione dei confini. I diritti umani intralciano le politiche sull’immigrazione. La costituzione intralcia l’esercizio del governo. Lo si vede ovunque, non solo a Cutro. E dunque, questo “disastro colposo”, questa “omissione di soccorso”, non è una “prassi” in moltissimi casi di naufragio?
Questa ossessione dei “comandanti in capo” che sono politici che sul respingimento dei migranti ci fanno le loro fortune elettorali, non è la vera causa di un modus operandi che ne è la traduzione concreta? Ma sul banco degli imputati, difficilmente ci andranno i politici.
Da un certo punto di vista, queste difese sperticate di Salvini sulla “gloriosa Guardia Costiera”, hanno sempre avuto il retrogusto dello scaricabarile: nessuno mai ha attaccato la Guardia Costiera, nonostante i disastri.
Ma questo mettere le mani avanti del Ministro, era come dire che se qualcuno aveva sbagliato, non era certo lui. E quindi erano loro. Se ci sarà un processo per la strage di Cutro, sarebbe un sogno che questi militari dicessero la verità, su come si forma la loro “prassi operativa”.
Dicessero quante circolari interne hanno dovuto studiare ad esempio, sul non classificare le barche di migranti in pericolo, come casi SAR, per non attivare la catena dei soccorsi. Su quante pressioni hanno ricevuto, da anni e da tutti, per far fare ai libici catture e deportazioni, piuttosto che assumersi direttamente il coordinamento di interventi di soccorso in mare, nonostante fossero stati i primi a ricevere le richieste di aiuto.
Sarebbe un sogno se questi uomini e donne, dicessero la verità, sulla differenza che c’è tra quello per cui si sono addestrati, e quello che gli fanno fare per “esigenze politiche”. L’obbedienza non è sempre una virtù, in certi casi è addirittura un crimine. E in questo è anche la firma sulla propria condanna che salverà i responsabili più potenti.