La lista alle europee

“Così la guerra è diventata genocidio”, intervista a Raniero La Valle

«La lista “Pace terra dignità” per le europee? Molti ci chiedono perché aggiungere un’altra proposta che divide la sinistra. Non per contendere qualche eurodeputato ad altri, ma per dire all’Europa come deve cambiare dopo aver tradito le ragioni della sua nascita»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

20 Febbraio 2024 alle 11:30

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“Così la guerra è diventata genocidio”, intervista a Raniero La Valle

La sfida della pace passa anche per la presentazione di una lista alle europee. L’Unità ne parla con uno dei promotori, assieme a Michele Santoro, della lista “Pace terra dignità”: Raniero La Valle, scrittore, saggista, politico. In questi giorni è nelle librerie il suo ultimo saggio, di stringente, drammatica attualità: Gaza delle Genti. Israele senza Messia (Bordeaux edizioni).

Della lista “Pace terra dignità” di Michele Santoro, Lei è uno dei promotori e delle personalità più autorevoli. Qual è il segno politico di questa “avventura” elettorale?
Partirei dall’obiezione che è la più spontanea che può nascere da una situazione politica come quella italiana. È una questione che mi sono posto anch’io quando insieme a Michele Santoro abbiamo lanciato questa idea. Dal punto di vista della materialità politica è un’impresa quasi disperata. In una situazione in cui c’è questa frammentazione della sinistra a fronte di uno schieramento di destra così compatto, almeno finora, ma privo di una vera prospettiva culturale e politica, con un rischio di fascismo incombente, con le guerre che marchiano il presente e ipotecano il futuro, come riesci ad entrare dentro questo groviglio facendo una proposta nuova che vada aldilà delle singole prospettive politiche che sono presenti in campo, con l’idea che possa avere una vera efficacia sul piano del cambiamento delle cose, che poi è quello che c’interessa davvero. L’obiezione di molti è: voi aggiungete un’altra lista, un’altra proposta che divide la sinistra, così non si va da nessuna parte, non si raggiunge il 4 per cento. C’è subito questo discorso della cucina politica, del risultato in termini numerici, di seggi, di utilità immediata. So bene che esistono tutte queste obiezioni, e non intendo sottovalutarle…

Tuttavia?
La risposta è che in un momento come questo bisogna avere contezza del cambiamento profondo che è in atto, anche al di là di quello che noi percepiamo, nella situazione politica mondiale e nelle prospettive stesse della comunità umana. Noi stiamo veramente rischiando di giorno in giorno. E questo è davvero pericoloso. Perché se le catastrofi vengono preparate in un modo “omeopatico”, un tantino al giorno, poi non ci si rende conto del cumulo che alla fine si produce e quando arriva poi il peggio non si è più in grado di fronteggiarlo. Dobbiamo renderci conto, prima che sia troppo tardi, che se noi indulgiamo ancora, come stiamo facendo, con tutta la cultura dell’Occidente, con tutta la stampa dell’Occidente, con tutto il sistema informativo dell’Occidente, all’idea per cui ormai il mondo è il teatro di una competizione all’ultimo sangue tra le grandi potenze per chi prende il controllo del pianeta, della sua economia, delle sue risorse, del suo futuro, se noi accettiamo questa prospettiva e torniamo a pensare alla guerra come lo strumento naturale del rapporto tra le nazioni, tra i popoli, beh, noi andiamo veramente verso un futuro che non è neanche prevedibile quanto alla sua tragicità. C’è un problema enorme, direi epocale, di cambiamento prima di tutto delle culture, delle antropologie e delle fedi, ed avverto, come tante e tanti altri, dell’assoluta necessità di imprimere un cambiamento alla storia dell’umanità. Una volta fatta questa diagnosi, dopo la guerra di Ucraina che non si vuole che finisca, dopo l’inizio del genocidio a Gaza, dopo che questa specie di assuefazione non soltanto alla guerra ma alla guerra come genocidio, come distruzione di un popolo, come alternativa tra un popolo e un altro, tra una nazione e un’altra, tra una cultura e un’altra, se siamo arrivati a questo punto, se la prima cosa disponibile per una battaglia politica per il cambiamento sono delle elezioni a livello europeo, cioè a livello di questo grande soggetto che è presente sulla scena mondiale e che potrebbe, se cambiasse la sua relazione con le altre grandi forze motrici della storia umana, dare un’impronta diversa alla storia che stiamo vivendo, allora approfittiamo di questa occasione, le europee, per cercare di promuovere, per quel che ci è dato fare, un cambiamento. In molti in questi giorni ci chiedono perché vogliamo andare alle europee…

E qual è la sua risposta?
Non per avere qualche deputato a Bruxelles da contendere agli altri, e nemmeno, al limite, per superare il quorum, ma per dire all’Europa che cosa deve essere, e come deve cambiare, e come debba rispondere alla domanda di papa Francesco, gridata davanti a un milione di giovani: “Dove vai Europa, verso dove stai navigando ?”, perché è chiaro che oggi hai tradito le ragioni per cui sei nata nel 1951, e ancor prima ciò che ti ha ispirato dall’inizio della tua storia, quando fosti rapita da Zeus, fino alla tua identità cristiana, ebrea, araba e laica di oggi. E oggi non puoi essere Europa, se vuoi farti un esercito europeo, come i vecchi Stati pronti alla guerra, concepiti come Leviatani, cioè come mostri che si sbranano tra loro. E invece tu sei fatta perché “tornino i volti”, “il volto dell’altro”, come dicevano Emmanuel Levinas e Italo Mancini.

La guerra come segno dei tempi, dall’Ucraina al Medio Oriente. La tragedia di Gaza, alla quale Lei ha dedicato un libro in questi giorni nelle librerie, Gaza delle genti. Che ha come sottotitolo, molto intrigante, Israele contro Israele. Qual è il messaggio che vorrebbe far emergere da questo libro?
Il messaggio è che l’errore di fondo, esiziale, è stato quello di abituarsi all’idea che il rapporto tra Israeliani e Palestinesi, in Palestina, fosse sostanzialmente privo di soluzione. E che quindi si trattasse di trovare un modus vivendi, per il quale tutti quanti sono solidali e decisi a sostenere l’esistenza, la sicurezza, l’integrità dello Stato d’Israele e tutti quanti, anche quelli che hanno una qualche simpatia per i Palestinesi, pensano che debbano adattarsi e trovare un modo di sopravvivere all’interno di una realtà ormai definitiva. È l’idea dei governi d’Israele degli ultimi dieci-quindici anni, soprattutto quelli guidati da Netanyahu ma non solo essi, per cui si pensava, agendo di conseguenza, che la questione palestinese potesse essere considerata non risolta ma licenziata, accantonata definitivamente o quasi, questa idea era non solo perversa ma impossibile a realizzarsi. Ed è quindi successo qualcosa che era imprevedibile che però non era affatto fuori dalle possibilità…

Vale a dire?
Che a un certo punto questo popolo oppresso, addirittura negato, ha operato uno strappo spaventoso, con gli attacchi del 7 ottobre, facendo sentire che esiste e che il problema non può considerarsi risolto. Questo è il dramma a cui ha alluso il Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, quando ha affermato che non è possibile considerare la tragedia del 7 ottobre, quel sanguinoso attacco terroristico, come se fosse nato dal nulla. Viene fuori da 56 anni di occupazione e di oppressione. E questa occupazione non è solamente un errore politico. Questi 56 anni, sono stati anni di tormento, di sofferenza, di umiliazione, ed era illusorio, oltre che ingiusto, pensare che potessero essere accettati come un assetto definitivo di quella situazione. La tragedia di Gaza ci dice che non siamo più alla guerra ma ad una partita finale in cui ciò che non è possibile accettare è che la soluzione sia la sopravvivenza dell’una o dell’altra entità politica, dell’uno o dell’altro popolo. Non è possibile che si finisca o con la vittoria d’Israele o con la vittoria di Hamas e dei palestinesi. Bisogna che questa tragedia finisca con una ricomposizione delle due entità, di questi due popoli, di queste due realtà umane, ricchissime, bellissime che hanno eguale diritto di stare al mondo e di dare al mondo il proprio contributo ed essere accettate da tutti. L’unica “vittoria” da ricercare è quella della riconciliazione. È il reciproco riconoscersi, il passare da una situazione di incompatibilità reciproca ad una sorta di abbraccio fraterno.

Nel libro si delinea anche una sorta di “Israele contro Israele”. Perché?
Perché il governo d’Israele, lo Stato d’Israele, sta dando una autorappresentazione di sé che è micidiale. Non solo per lo Stato d’Israele ma per tutto il popolo ebreo della diaspora. Nelle politiche che ha adottato Israele e anche il modo in cui sta conducendo questa operazione bellica a Gaza, in questo modo di agire, Israele sostanzialmente esprime un’autobiografia della nazione. Noi siamo così. Non accettiamo né la sfida che viene dal popolo palestinese, che è il nostro diretto antagonista in questa terra, né accettiamo la presa di distanza del mondo circostante, neanche quella dei nostri amici, a cominciare dagli Stati Uniti, continuiamo sulla nostra strada. Ma questa autobiografia, questo dire che: noi siamo quelli che possiamo anche soli contro tutti sopravvivere e prevalere, credo che sia pericolosa e micidiale non solo per lo Stato d’Israele ma anche per il popolo della diaspora. Israele deve ripensare a se stesso e non solo al rapporto con gli altri.

Che spiegazione si è dato del durissimo attacco, poi solo in parte rientrato, dell’ambasciata d’Israele presso la Santa Sede, contro il segretario di Stato vaticano, cardinale Parolin?
Anzitutto va detto che la questione per la Chiesa cattolica, intendendo per essa non solo l’istituzione ecclesiastica, il papato, ma la realtà intera della confessione cristiana nel mondo, era di difficilissima soluzione, nel senso che da un lato c’è il problema di non recedere da quella che è la posizione tradizionale, direi obbligatoria, della Chiesa e del cristianesimo di essere dalla parte delle vittime, di gridare per la giustizia, di lottare per la vita, di combattere le ingiustizie, e dall’altro il rischio che questa posizione di difesa del debole, delle vittime, venisse interpretata come antagonistica rispetto non solo allo Stato d’Israele, alla sua entità politica, il governo, ma all’intera realtà del popolo ebreo della diaspora. E questo dipende dalla natura stessa dello Stato d’Israele. Non dalla cultura che presiede all’insediamento degli ebrei nella terra di Palestina, ma dalla descrizione che Israele stesso dà di sé, nelle sue leggi, in primis quella Legge fondamentale del 2018, in cui lo Stato d’Israele viene identificato con il popolo ebreo della diaspora e quest’ultimo diventa in qualche modo la rappresentazione esterna dell’entità politica d’Israele. Questo ibridismo, questa integrazione tra entità politica ed entità spirituale, storica, tradizionale, biblica d’Israele, che finora, bene o male, era stata accettata, oggi appare in forte crisi. Questo nodo va sciolto, il che non vuol dire che lo Stato d’Israele debba cessare di essere lo Stato degli ebrei. Tutt’altro. Questo sarebbe facilmente contestabile come antisemitismo o per lo meno come una posizione pregiudiziale contro lo Stato d’Israele. Bisogna, però, che lo Stato d’Israele, come Stato degli ebrei, trovi il modo di esprimere questa sua ebraicità, il valore del suo rapporto con la tradizione e la fede d’Israele, in modo tale che non sia esclusivista, antagonista, e in negativo, della realtà delle altre religioni e degli altri popoli. Bisogna che la composizione tra la realizzazione politica delle promesse messianiche e la realtà del popolo che le esprime, questo rapporto sia sciolto in un senso che sia positivo e vitale per tutti, non solo per gli ebrei ma anche per quelli che sono intorno a loro e che con loro hanno un rapporto. Per la Chiesa cattolica era molto importante che il giudizio politico sull’attuale vicenda che contrappone Israele ad Hamas, non venisse confuso con un allentamento della sua scelta, irreversibile, di amicizia, di accoglienza, di riconoscimento del rapporto con l’ebraismo e la fede ebraica. Mi lasci aggiungere che la realizzazione estrema di questa concezione dello “Stato-nazione ebraico” è quella che ha fondato la rivendicazione israeliana di tutta la Terra promessa, compresi i “Territori occupati palestinesi”, l’apartheid palestinese, la demolizione delle loro case, la promozione intensiva delle colonie, fino al ritiro da Gaza, sigillata per isolarvi e privare di risorse una gran parte della popolazione palestinese, giunta ora lì a 2,2 milioni di persone, di cui più della metà bambini e adolescenti che hanno meno di quindici anni.

Per tornare e concludere con la sfida politica. Di fronte a quella che Papa Francesco ha definito una “guerra mondiale a pezzi”, vi sia una sottovalutazione del pericolo da parte della sinistra?
Credo che questo sia un problema enorme che vada ben al di là della sinistra e che riguarda un po’ tutto il rapporto della cultura con la realtà storicamente permanente della guerra.
Siamo davvero ad un punto di svolta. Vede, noi abbiamo vissuto tutto il ‘900 con l’idea che ormai la guerra era arrivata ad un livello di distruttività tale per cui non poteva più essere considerata come lo strumento normale del rapporto tra le potenze. Questa presa di coscienza si è tradotta in una politica che da un punto di vista ideale era perversa, perché basata sul reciproco terrore, cioè sul brandire ciascuno la bomba atomica, addirittura l’arma spaziale per impedire all’altro di aggredire, cosa che però voleva dire che la guerra non si può fare, e non la faremo tra noi grandi potenze, l’idea che ormai la guerra fosse obsoleta come strumento normale di rapporto tra le potenze…

La deterrenza. E oggi?
Oggi siamo arrivati all’idea che anche questa guerra così totale, dotata di armi di sterminio, così come oggi si presenta, sia tollerabile, sia un normale, possibile sviluppo della crisi mondiale. Quindi c’è una contraddizione spaventosa tra quella che era la percezione a cui si era arrivati nel ‘900 e questa assuefazione, questa corrività per cui gli stati maggiori, i governi, le cancellerie, i media, tutto il sistema, accettano l’idea malsana che le crisi gravissime in atto in Ucraina, in Palestina, o nel rapporto con la Cina, con l’indopacifico o con il mondo che cerca di rialzare la testa dopo secoli di oppressione, che tutto questo possa finire nella grande conflagrazione finale per vedere chi vince tra gli Stati Uniti, la Cina, la Russia. Mentre si sta profilando questa sorta di assuefazione all’idea di uno scontro finale, allo stesso tempo si sta dimostrando che la guerra, al di là degli strumenti che usa, sta diventando qualcosa che non è più compatibile, in alcun modo, con un atteggiamento di umanità, di civiltà, di antropologia minimamente corrispondente alla natura dell’essere umano. La guerra sta diventando essa stessa un genocidio. La guerra non è più “normalizzabile”, come una realtà dolorosa ma da accettare entro limiti che non vadano al di là del tollerabile, la guerra stessa è un crimine di genocidio. È quello che sta avvenendo a Gaza. Se la guerra è diventata essa stesso genocidio, dobbiamo trovare il modo per metterla al bando dalle possibilità reali.

20 Febbraio 2024

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