La sentenza della Cassazione
La Libia non è un porto sicuro, chi porta i naufraghi lì viola la legge
La Suprema Corte ha chiarito che è vietato sbarcarli in quel paese perché non sicuro. È vietato anche rivolgersi alla cosiddetta guardia costiera. Quindi le Ong che non lo fanno rispettano il diritto e i diritti
Editoriali - di Gianfranco Schiavone
Il 30 luglio 2018 la Asso 28, rimorchiatore della società armatrice “Augusta Offshore” che operava a supporto della piattaforma Sabratha della società petrolifera “Mellitah Oil & Gas”, società a sua volta partecipata di ENI Nord Africa e della società libica NOC, veniva allertata da personale della piattaforma della presenza di un gommone con 101 persone migranti in acque internazionali, tra cui donne e bambini.
La Asso 28, dopo aver accolto a bordo un presunto agente libico, intercettò il gommone riportando tutti i migranti in Libia, al porto di Tripoli. I migranti sarebbero poi stati detenuti e sottoposti a violenze e a trattamenti inumani e degradanti.
Con decisione del 13 ottobre 2021 il Tribunale di Napoli condannò il comandante della nave privata Asso 28 per aver riconsegnato alle autorità libiche alcuni migranti salvati in acque internazionali ritenendo che la condotta del capitano integrasse i reati di “sbarco e abbandono arbitrario di persone”, di cui all’art. 1155 del codice di navigazione, e di “abbandono di minore o di persona incapace” di provvedere a se stesso per malattia, o altra causa, di cui all’art. 591 del codice penale.
La Corte d’Appello di Napoli, all’esito dell’udienza del 10 novembre 2022 confermò la decisione del Tribunale di Napoli. Infine con la sentenza 11/10/2023, n. 4557 la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dalla Asso 28 confermando interamente le conclusioni cui erano giunte in precedenza i giudici di primo e secondo grado. Come valutare la ricaduta della sentenza della Cassazione sulla gestione delle operazioni di soccorso in mare?
Il 19 febbraio 2024, a margine della sottoscrizione di un accordo tra la Regione Lombardia, l’Agenzia nazionale per l’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata e l’Anci Lombardia, il Ministro Piantedosi noto per le sue esternazioni spesso azzardate, ha rilasciato alla stampa alcune dichiarazioni che riporto sinteticamente: secondo Piantedosi la sentenza «va collocata temporalmente in un momento preciso in cui la Libia aveva determinate condizioni e le collaborazioni con l’Ue erano finalizzate a portare la Libia a superare le situazione di quel momento».
Ad avviso di Piantedosi il punto di fondo della Sentenza della Cassazione è quello di richiamare l’obbligo per chiunque effettui soccorsi in mare di «coordinarsi con le autorità competenti in materia, non può esserci spontaneismo. L’importante è che ci sia coordinamento». Infine Piantedosi ha concluso sostenendo che «l’Italia non ha mai coordinato e mai consegnato in Libia migranti raccolti in operazioni di soccorso coordinate o direttamente effettuate dall’Italia».
Nella sentenza la Cassazione ricorda in primo luogo che «per alcune funzioni di polizia di sicurezza, come quelle afferenti il salvataggio in mare, quale incaricato di pubblico servizio (….) Opera, quindi, il comandante della nave privata, quale agente dello Stato anche in acque internazionali in ordine a tali funzioni: attraverso il comandante della nave lo Stato, infatti, esercita controllo e autorità su un individuo, e quindi giurisdizione, ed è tenuto, in virtù dell’articolo 1 della Cedu, a riconoscere a quell’individuo i diritti e le libertà enunciati nel titolo I della Convenzione».
Il comandante dell’Asso 28 agì però autonomamente senza né il coordinamento di Roma e senza neppure quello di Tripoli, bensì agì solo sotto la guida di un cosiddetto ufficiale libico che, senza essere identificato, venne fatto salire sulla nave.
Il Ministro Piantedosi ha ragione quando ricorda che la sentenza stigmatizza la condotta del capitano della nave in relazione al mancato coordinamento con le autorità competenti, ma ciò non consente certo di giungere alla conclusione che per rispettare il diritto internazionale sia sufficiente che le operazioni di soccorso si svolgano sotto il coordinamento di uno Stato e non abbia alcun rilievo quali siano in concreto gli ordini che vengono impartiti e quale sia la destinazione dei naufraghi.
Ricorda infatti la Cassazione, riprendendo l’orientamento interpretativo della nota Sentenza della Corte EDU sul caso Hirsi c. Italia (Grande Camera, causa Hirsi Jamaa e altri c. Italia – 23 febbraio 2012) relativo proprio a un respingimento diretto attuato dalle autorità italiane verso la Libia, che il comandante di una nave italiana o di altri stati che hanno sottoscritto la Cedu (Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo) è tenuto sempre e senza eccezione alcuna a tutelare le persone soccorse riconoscendo loro i diritti e le libertà previste dalla Convenzione, anche se l’operazione di soccorso avviene nelle acque internazionali.
La Cassazione mette bene in luce «come i principi sovranazionali, enunciati dalle Corti, palesino sempre la necessità di verificare in concreto la sicurezza dello Stato di destinazione, a fronte di situazioni emergenziali che lascino presumere che non vengano effettivamente garantiti i diritti umani dei naufraghi, anche solo potenzialmente richiedenti asilo, sia in ambito unionale che internazionale».
Ancora ricorda la Cassazione come «il comandante deve procedere alla consegna in porto sicuro, oltre a dover adempiere durante il viaggio a una serie di obblighi di custodia e cura quanto ai naufraghi a bordo, in relazione ai profili sanitari, di identificazione, di conoscenza della volontà degli stessi di voler chiedere la protezione internazionale».
Richiamo l’attenzione sul fatto che nel diritto internazionale «un luogo sicuro è una località dove (…) la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.2 della Ris. MSC. 167-78 del 2004).
La decisione assunta dalla Cassazione cristallizza dunque il principio giuridico in base al quale nessun capitano di qualsivoglia imbarcazione è esentato dal rispetto del diritto internazionale in materia di soccorso in mare ed in particolare dall’obbligo che i naufraghi siano condotti in un luogo sicuro. Che la Libia non lo sia è un fatto non contestabile nonostante Piantedosi alluda a una situazione specifica che ricorrerebbe al momento dei fatti della Asso28 e che ora sarebbe superata.
Non è così però: ancora il 17 gennaio 2022, il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres nell’esprimere “grave preoccupazione” per le continue violazioni dei diritti umani contro rifugiati e migranti in Libia tornò a sottolineare che “la Libia non è un porto di sbarco sicuro per rifugiati e migranti”.
Un giudizio analogo è quello contenuto nel secondo Report pubblicato nel marzo 22 dall’Independent Fact-Finding Mission on Libya del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite che evidenzia l’esistenza di una “diffusa e sistematica detenzione arbitraria” e gli “atti di omicidio, sparizione forzata, tortura, riduzione in schiavitù, violenza sessuale, stupro e altri azioni disumane” sono così diffusi da portare gli esperti ONU a ritenere che ci siano “ragionevoli motivi per credere che in Libia vengano commessi crimini contro l’umanità contro i migranti”.
Nonostante ciò, secondo Amnesty International il numero di persone intercettate in mare e che sono state costrette a fare ritorno in Libia negli ultimi cinque anni è salito a oltre 82.000 e come osserva Matteo De Bellis, ricercatore di Amnesty «negli ultimi cinque anni, Italia, Malta e l’UE hanno contribuito a catturare decine di migliaia di donne, uomini e bambini in mare, molti dei quali sono finiti in orribili centri di detenzione pieni di torture, mentre innumerevoli altri sono stati scomparsi con la forza».
Risulta dunque quanto mai rilevante sia il valore della sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione che la sua stringente attualità. Sussiste per qualunque imbarcazione un divieto di riportare i naufraghi in Libia ed esso implica altresì un divieto di chiedere alla presunta guardia costiera libica di coordinare i soccorsi perché chi in qualunque modo attua una condotta che conduce a tale esito si rende corresponsabile, nell’esercizio delle sue funzioni, della violazione di normative interne, europee ed internazionali al cui rispetto è invece tenuto.
Prive di fondamento risultano le recenti accuse mosse alle navi delle ONG di non chiedere il coordinamento dei soccorsi e la conseguente assegnazione di un porto alla Guardia costiera libica perché, proprio nel rispetto della legge, non possono farlo. Spetta al centro di coordinamento dei soccorsi italiano o di altri paesi UE eventualmente coinvolti in relazione alle loro aree SAR, coordinare e concludere le operazioni di soccorso in un luogo sicuro che non può essere la Libia.