Bocciato l'emendamento
Perché il terzo mandato è stato bocciato, Salvini perde la battaglia ma non la guerra…
Meloni ha fatto muro: niente spiragli per Zaia. Ma il leader leghista è pronto a tornare alla carica in aula. E se la Sardegna finisse alla sinistra...
Politica - di David Romoli
Partita chiusa. Forse. O forse no. Per ora la crociata leghista per portare a tre il tetto dei mandati per i presidenti di Regione è andata a sfracellarsi contro il muro di Giorgia Meloni, supportata da tutti i partiti di maggioranza e opposizione tranne Iv.
È finita con una sonora bocciatura della proposta in commissione Affari costituzionali del Senato: 16 voti contro 4. Il presidente della commissione Balboni, FdI, mimizza: “Non drammatizzerei”. Maurizio Gasparri, che è una vecchia volpe del Parlamento, lo va profetizzando già da giorni: “Si voterà, l’emendamento verrà respinto e non ci sarà nessuna lacerazione”.
In realtà per quadrare il cerchio mascherando la spaccatura c’è voluto un bell’esercizio di diplomazia. Il governo ha dato parere negativo all’emendamento sul terzo mandato per i sindaci e la Lega lo ha ritirato.
Una prova di unità solidale a buon mercato dato che il Carroccio non è interessato ad alcun sindaco arrivato al limite. Il governo, in compenso, ha scelto una neutralità di facciata sui governatori. Si è rimesso alla commissione e la Lega ha mantenuto il testo pur sapendo che sarebbe stato certamente respinto. La mossa concordata ha due obiettivi: per Meloni si tratta soprattutto di evitare che la spaccatura coinvolga il governo. Lì, grazie alla neutralità, sulla carta non c’è alcuna spaccatura. In Parlamento sì ma non è cosa che riguardi palazzo Chigi.
D’altra parte, proprio perché la faccenda riguarda solo “il libero convincimento” dei parlamentari la Lega è del tutto legittimata a tornare alla carica e Tosato, uno dei tre presentatori dell’emendamento promette che sarà fatto. Senza aspettare troppo. Salvini pensa di riprovarci a breve: “La commissione ha bocciato l’emendamento ma sovrana è l’aula”. A Montecitorio c’è il ddl del Carroccio, sostanzialmente identico all’emendamento cestinato e di qui alle elezioni nel Veneto c’è tempo a sufficienza per cercare il varco oggi inesistente.
Quello spiraglio Giorgia Meloni non ha alcuna intenzione di socchiuderlo. Per lei la partita è chiusa. Molto dipende da cosa succederà nei prossimi mesi a partire dalle elezioni di domenica in Sardegna. Una sconfitta di Paolo Truzzu, il sindaco di Cagliari fortissimamente voluto dalla premier e imposto cacciando il governatore uscente targato Salvini, renderebbe la posizione della premier molto meno solida e la Lega tornerebbe subito alla carica.
L’esito delle elezioni europee peserà moltissimo ma non solo per la Lega. Certo il Carroccio e anche Salvini personalmente rischiano grosso ma per la premier un risultato anche positivo ma inferiore alle aspettative sarebbe altrettanto negativo. I dubbi che nutre oggi sull’ipotesi di ricandidarsi derivano proprio dalla paura di non superare il 30% e con lei in campo restare al di sotto di quella percentuale suonerebbe come una sconfitta tonda.
Sul fronte opposto la ha avuta vinta Conte. Il Pd ha provato a insistere per disertare il voto. Ufficialmente solo per rendere molto più vistosa e clamorosa la spaccatura della maggioranza. In realtà soprattutto per evitare la rottura interna, quella con il partito degli amministratori. Il leader dei 5S si è impuntato: la regola dei due mandati è l’ultimo vessillo del vecchio Movimento che ancora sventola e Conte non poteva rinunciare a sbandierarlo apertamente. Il Pd, come tutta l’opposizione salvo Italia viva si è uniformato. “Noi siamo uniti, la maggioranza no”, commenta il capogruppo di Avs Peppe De Cristofaro all’uscita.
“Si sono spaccati ed è giusto chiedersi se ci saranno ripercussioni sul governo”, prova ad affondare la lama Schlein. Interrogativo lecito e alla lunga forse fondato ma per ora le ripercussioni sono all’interno del Pd. Sindaci, governatori e amministratori l’hanno presa malissimo. Energia popolare, l’area di Bonaccini, esprime apertamente “forte disappunto!”, anche perché la leader ha aggirato la decisione della Direzione di lunedì scorso, che affidava la scelta a un gruppo di lavoro che ha avuto ben poca voce in capitolo. Ma in questo caso la rivolta è bipartisan. La conferenza delle Regioni ha scritto al governo chiedendo un incontro insistendo per il terzo mandato. Con le firme dei governatori sia di destra che di sinistra.