Due iniziative
Amnistia e indulto: la richiesta a sorpresa delle Toghe Rosse, conquistate dal garantismo
Non riesco a capire come una società democratica possa non considerare un ostacolo alla democrazia l’esistenza di un potere violento: finché esiste il carcere qualunque potere possa controllare il carcere è sempre un potere autoritario
Editoriali - di Piero Sansonetti
“Area”, una delle correnti di sinistra della magistratura, chiede formalmente l’amnistia e l’indulto, cioè fa sua una vecchia e testardissima idea di Marco Pannella. È una novità assoluta. Importantissima perché cambia gli equilibri nel dibattito e nella lotta sulla giustizia. “Amnistia e indulto” vuol dire depotenziamento del carcere.
Per questo sono misure che hanno un valore centrale sulla via della riforma della giustizia. È molto importante anche la motivazione di questa richiesta: non per decongestionare le Procure e i tribunali (che pure è una ragione validissima per chiedere l’amnistia) ma per ridurre il numero dei prigionieri.
Ieri abbiamo riferito di una presa di posizione altrettanto importante assunta da Magistratura Democratica (che è l’altra corrente di sinistra della magistratura) la quale addirittura ha firmato un documento molto avanzato sul carcere insieme alle Camere Penali e ad Antigone (associazione sociale e politica contro il carcere).
Voi capite che il combinato disposto delle due iniziative non può non aprire il cuore a chi crede che il problema della giustizia-ingiusta sia come un masso che blocca la strada al progresso e impedisce il pieno dispiegarsi della modernità e della civiltà.
Non a caso questo giornale, che affonda le radici nella vecchia cultura comunista, ospita tutte le domeniche – con grande gioia e sincera ammirazione per gli autori e per la loro immensa passione civile – una pagina curata da “Nessuno Tocchi Caino”, che è una associazione di formazione radicale e fondata da Marco Pannella e che ha scelto come missione principale l’opposizione al carcere.
Il carcere è un problema che va affrontato da due versanti. Uno etico e l’altro – direi – politico. La questione etica è molto semplice: il carcere è un modo per riparare con inaudita violenza un presunto delitto. Il carcere è sopraffazione. Il carcere è espressione della crudeltà di chi lo determina e di chi lo approva. Il carcere è la negazione di qualunque spirito liberale.
E cristiano. Il carcere è il tentativo di controbilanciare in modo delittuoso – gravemente delittuoso – un reato, che la maggior parte delle volte è molto minore rispetto al delitto del mettere in carcere. Il carcere è uno dei mali più profondi della società moderna.
Il secondo versante è quello politico. Ne accennavo ieri, commentando il documento firmato da Md. Il carcere è il principale strumento di potere – e di sopraffazione – in mano alla magistratura. Sia alle Procure, che dispongono del potere di ordinare la carcerazione preventiva (spesso su base di labili sospetti, talvolta addirittura di intenzioni persecutorie) sia da parte dei tribunali.
L’obiezione che i Pm possono solo chiedere il carcere ma è poi un giudice a deciderlo è un sofisma leggero più d’una piuma. Nel 95 per cento dei casi il Gip obbedisce in silenzio al Pm ed esegue i suoi ordini.
L’abolizione del carcere (o la estrema riduzione dello strumento-carcere ai casi estremi nei quali è in pericolo la sicurezza pubblica) libererebbe la magistratura di questo strapotere e la ricondurrebbe alla sua naturale funzione di regolatrice nonviolenta dei conflitti giuridici.
E questo risolverebbe una grandissima parte del problema delle riforme del giudizio e della struttura della magistratura. Riformare una magistratura che si è liberata della violenza è molto più semplice. E sarebbe anche molto più semplice riaffermare il valore dell’autonomia della magistratura, che oggi è molto discutibile perché spesso si presenta come incontrollabilità di un potere violento.
Non riesco a capire come una società democratica possa non considerare un ostacolo alla democrazia l’esistenza di un potere violento. Per me è una questione non meno grave del regime autoritario. Finché esiste il carcere qualunque potere possa controllare il carcere è sempre un potere autoritario.
Il naturale svolgimento di questo ragionamento è anche una critica alle correnti della magistratura che hanno firmato i due documenti dei quali stiamo parlando. Sommessamente vorrei chiedere a quei magistrati: ma se parlate, giustamente, di eccesso delle carcerazioni e delle leggi che ne impongono di nuove, come fate a non rivolgere un rilievo a voi stessi?
Perché in prigione ci stanno diverse migliaia di persone con meno di un anno di pena? Non potrebbero essere liberate con una decisione dei giudici di sorveglianza? Perché vive in prigione un discreto numero di persone anziane?
Perché – soprattutto – sono in prigione più di 15 mila persone in carcerazione preventiva, la stragrande maggioranza delle quali, oltre a godere della presunzione di innocenza, non è in grado di inquinare le prove, né di reiterare il reato, né di sfuggire a una eventuale condanna, e dunque, a norma di legge, dovrebbe essere libera?
Colpa dei politici? Sì, forse anche. Ma soprattutto colpa della magistratura e del suo eccesso di potere mal utilizzato. Proprio per questa ragione accolgo con esultanza la notizia che sono dei magistrati a criticare il carcere. Perché sono sempre stato convinto che una riforma vera della giustizia (che dal carcere deve partire) è possibile solo se si spezza il monolite giustizialista della magistratura. Si è spezzato? Forse sì.