L'analisi sulle regionali
Chi ha vinto e chi ha perso in Sardegna: dal successo di Schlein e Conte al flop della Meloni
È un merito di Elly Schlein aver rifiutato la santificazione delle primarie e aver imposto delle rinunce alle pretese egemoniche del Pd. Senza l’intesa con il M5S, la competizione in Sardegna sarebbe risultata asimmetrica
Editoriali - di Michele Prospero
La Sardegna conferma un dato apparso chiaro fin dal settembre nero del 2022: la destra vince non in virtù di un’onda popolare inarrestabile, ma solo grazie alla frantumazione delle forze politiche rivali.
Il primo suicidio assistito venne ordinato da Letta, che ritenne del tutto digeribile la più scontata delle disfatte pur di punire i traditori dell’“agenda Draghi”. Il governo di unità nazionale, in realtà, aveva di fatto già esaurito il mandato iniziale di una efficace allocazione dei fondi europei. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, la sua azione appariva sempre più orientata verso la politica estera, e quindi interessata soprattutto a gestire una guerra di lunga durata.
Il primato assunto dalla dimensione internazionale ha garantito un coro di elogi a Meloni, “la fuoriclasse” secondo Repubblica, che rassicurava le cancellerie straniere proseguendo in pieno con lo spirito bellicista.
La coperta della fedeltà agli impegni militari risultava però troppo stretta per riuscire ad occultare l’insipienza di governo dei “patrioti” e l’assalto da loro lanciato alla struttura costituzionale e alle condizioni minimali dello Stato di diritto.
Il trauma di un postfascismo (per ora) democratico è stato riacutizzato in seguito ai fatti di Pisa dal drammatico intervento del Quirinale, costretto a censurare l’estetica del manganello che si respira nei palazzi del potere.
Il volto autentico della destra, che esibendo il pugno di ferro intende divorare i diritti costituzionali, sollecita le opposizioni sinora disgregate a trovare dei momenti di dialogo. La ricerca di un accordo tra soggetti eterogenei è peraltro il requisito minimo per rendere competitivo il voto.
È un merito di Elly Schlein aver rifiutato la santificazione delle primarie e aver imposto delle rinunce alle pretese egemoniche del Pd. Senza siglare una intesa con il M5S, la competizione in Sardegna sarebbe risultata asimmetrica.
Del resto, nell’isola alle ultime politiche il partito più forte dell’opposizione era proprio quello di Conte, che con il 21,8% staccava il Pd fermo al 18,7%. L’alleanza alle regionali era perciò un rischio, non una follia.
Che la contesa fosse anzi molto aperta, sembrava evidente anche alla luce del rapporto di forza registrato nel 2022: allora il centrosinistra e i Cinque Stelle complessivamente avevano raccolto il 48,8% dei voti, contro il 40,5% delle destre.
Sulla base di questi numeri promettenti, Schlein ha potuto forzare la mano e sfidare anche le resistenze dei gruppi centristi di opposizione. Se avesse riproposto una offerta elettorale minimalista che saldava, come in passato, solo il Pd e l’area moderata di centro, l’esito sarebbe stato una replica delle regionali del 2019, quando la destra stravinse con 15 punti percentuali di distacco.
È stato invece allestito un fronte vincente attorno alla figura di Alessandra Todde, molto “specialista + politico” e poco movimento di protesta. Per questo suo profilo, i voti sul nome della presidente hanno scavalcato di 41 mila unità la somma dei consensi andati alle liste collegate.
La manifesta ri-polarizzazione conseguente al varo dell’esecutivo di destra è stata l’ingrediente decisivo per motivare le truppe alla battaglia e rintuzzare le insidie contenute nella candidatura di Soru (che ha ottenuto 9 mila voti personali in più rispetto alle sigle che lo sostenevano).
L’opzione strategica di Renzi e Calenda, a favore di un terzo polo capace di insinuarsi con la sua ragionevolezza tra gli estremi mostrando la superiorità della competenza sul bi-populismo, è stata pensata in tempi di bonaccia.
Una tale prospettiva di negoziazione ad oltranza pare destinata ad essiccarsi in momenti di più forte bipolarismo, quando lo scontro tende a risucchiare le preferenze attorno ai due attori più forti. Una scelta di campo è d’obbligo dopo le elezioni sarde, che convalidano i vantaggi di una coalizione massima vincente con il coinvolgimento di tutte le opposizioni parlamentari.
La prima sonora sconfitta del progetto meloniano di edificare un regimetto che spacca la testa ai ragazzini non è imputabile solo alla imposizione di un cavallo azzoppato (che ha incassato 5 mila voti in meno delle liste fiancheggiatrici). La compattezza dello schieramento di sinistra ha fatto deflagrare nelle destre contraddizioni che non si placano con la semplice gestione dell’amministrazione.
Per il suo risvolto politico generale, il voto della Sardegna incoraggia i lavori in corso per un’alternativa. Non si tratta però della riedizione del “campo largo” perché l’idea di Zingaretti muoveva le pedine nel puro gioco del trasformismo parlamentare per afferrare l’opportunità di occupare comunque il potere.
La proposta di Schlein ha invece il vantaggio di non scaturire da una confluenza opportunistica, seppure temporaneamente necessaria dopo il colpo di sole salviniano del Papeete, ma di maturare sul più solido terreno dell’opposizione. Essa inoltre postula il passaggio della legittimazione elettorale, e quindi reclama politica, programmi, azione condivisa.
Il voto della Sardegna possiede di sicuro una rilevanza nazionale e rimette in movimento le acque divenute stagnanti per le infinite divisioni delle opposizioni. Sul piano sociale e costituzionale, il percorso unitario non dovrebbe presentare scogli.
Lo stesso terzo polo sarà indotto a più ragionevoli letture della riforma Meloni, denunciata per le sue venature autoritarie da diversi ex presidenti della Corte costituzionale. Anche le obiettive modificazioni del M5S (Conte ha prima strappato l’ipoteca aziendale e poi ha tolto di mano il comando al comico genovese) rendono problematica l’assunzione della categoria di populismo come ragione eterna per rigettare ogni approdo coalizionale.
Il solo ostacolo significativo al processo di definizione di un’ampia convergenza politica, più che dalle reciproche preclusioni tattiche, viene dalla guerra. Proprio su questa emergenza il Pd rimane ancora timido nell’analisi e nella iniziativa per influenzare le sinistre continentali.
Le parole imprudenti di Macron, il patto a lunga scadenza firmato da Meloni, disvelano una volontà di escalation. Con troppa facilità si dà per ineluttabile l’allargamento del conflitto. La scorciatoia militare potrebbe però far esplodere gli equilibri politici decennali della vecchia Europa.