Antonio Tajani si candiderà alle europee. La decisione non è ancora ufficiale e neppure definitiva ma quasi. Questione di sondaggi: il primo segretario nella storia di FI, un po’ a sorpresa dato il profilo discreto che ha sempre tenuto, figura come il leader italiano più popolare dopo Giorgia Meloni.
Insomma uno che tira voti e di voti la FI messa per la prima volta alla prova dopo la scomparsa del Cavaliere ha davvero bisogno. L’obiettivo che Tajani dichiara è ambizioso e difficilmente realizzabile anche con lui in campo: il 12-15%.
Quello reale e inconfessabile ma noto invece è a portata di mano, a maggior ragione con un capolista che si è scoperto molto più forte del previsto: superare la Lega, prendere qualche decimale almeno in più di Salvini, affermarsi come la vera “seconda gamba” della coalizione.
Certo, lo stesso leader azzurro sottolinea che perché decida di scendere in campo è necessario un preventivo accordo con gli altri due leader della destra. Ma se Meloni, ancora indecisa, sarà il traino di FdI nessuno potrà obiettare sulla stessa mossa fatta da Tajani. Per il leader della Lega la candidatura di Tajani è una pessima notizia.
Lui, almeno per ora, non ha intenzione di fare lo stesso passo ma tirarsi indietro con gli altri due capipartito in campo risulterebbe increscioso. Però cambiare idea sarebbe un bel rischio: un risultato scarso come quello che vaticinano oggi un po’ tutti i sondaggi peserebbe il doppio. In ogni caso, con o senza anche la sua candidatura, l’eventualità del sorpasso c’è e per il leader che quattro anni fa sembrava invincibile è un incubo.
La sua segreteria infatti è in bilico e i giochi d’apparato, i congressi vinti come quello del Veneto, l’appoggio praticamente unanime del Sud, potrebbero non bastare. Di fatto la sua leadership dipende da due partite entrambe a fortissimo rischio: il risultato delle europee e il Veneto.
Nonostante tutto è possibile, anzi probabile, che il vicepremier resista anche a un eventuale risultato scarso alle europee. Alla Camera è stata calendarizzata in aprile, a spron battuto e tra le proteste dell’opposizione, l’autonomia differenziata.
Sarà approvata in tempo per fare da vessillo nella campagna elettorale europea ma risulterà anche più utile per rintuzzare il dissenso interno. Il nerbo dell’opposizione interna è composto da vecchi e nuovi nostalgici della Lega bossiana, quella “del nord”.
Tra gli oppositori più sfegatati ci sono proprio i vecchi leghisti come l’ex ministro della Giustizia Castelli, che hanno sempre detestato il tentativo di trasformare la Lega da partito del Nord in forza nazionale, da rappresentanza degli interessi delle regioni settentrionali in partito d’opinione nazionale.
Ma l’autonomia differenziata altro non è, in fondo, che la trasformazione in legge di quello teorizzava decenni fa l’ideologo della prima Lega, Gianfranco Miglio, e provava, senza riuscirci, a conquistare Umberto Bossi. Accusare Salvini di aver tradito l’ispirazione originaria proprio mentre la Lega riesce a farne realtà non è facile.
Lo fa notare, fra le righe, il governatore del Friuli Fedriga quanto ripete che “l’autonomia è centrale anche nella Lega di oggi”. Il pronunciamento del friulano è particolarmente significativo perché il solo vero candidato alla successione è lui e lui, almeno per il momento, è indisponibile. Dichiara di voler restare alla guida del Friuli, esclude ambizioni da leader, fa scudo al Salvini bersagliato.
Il Veneto però è un altro paio di maniche e se un Salvini già fiaccato da risultati europei deludenti dovesse l’anno prossimo farsi scippare il Veneto dall’ “amica” Giorgia Meloni resistere sarebbe probabilmente impossibile.
Non a caso lo scricchiolio davvero allarmante è arrivato quando sulle posizioni critiche della vecchia guardia, “Era meglio la Lega del nord”, si è spostato il governatore (uscente) del Veneto Zaia. Non a caso la difesa del leader da parte di Fedriga era proprio una risposta al collega veneto.
Quando si dice Veneto si intende terzo mandato ma non solo. Quella partita è ancora aperta e dopo la Sardegna qualche spiraglio in più si è aperto, ma limitato. La premier resta contraria, anche perché a quel punto la conquista dell’Emilia, con Bonaccini di nuovo in campo, diventerebbe una chimera. Da difficile che è comunque si trasformerebbe in quasi impossibile.
Resta la possibilità di una soluzione concordata e accettata da tutti, quella sulla quale tutti stanno provando a lavorare ma con molte resistenze: Zaia sindaco di Venezia e il Veneto ancora leghista, con un presidente scelto dallo stesso Zaia. Senza una soluzione accettata dal governatore uscente le cose si complicherebbero per tutti.
Zaia finirebbe probabilmente per mettere in campo una sua lista. Salvini sarebbe costretto a scegliere. Il Veneto diventerebbe terra di conquista e la crisi della maggioranza sarebbe una possibilità concreta.
C’è una ulteriore variabile in campo: il generale Vannacci al quale le inchieste e la sospensione hanno in realtà fatto un enorme favore riportandolo alla ribalta. Vannacci non ha deciso se candidarsi con la Lega, accettare le fantomatiche “altre proposte” che afferma di aver ricevuto senza entrare nei dettagli oppure tentare in futuro l’avventura solitaria.
Se accetterà di correre per la Lega potrebbe portare, data la sua popolarità a destra, un congruo numero di voti. Ma l’ingovernabile graduato è un’arma a doppio taglio: da un lato l’ipotesi di ritrovarselo capolista manda in bestia moltissimi leghisti sia di fede bossiana che salviniana: lo considerano e non a torto un estraneo.
Dall’altro l’esuberante generale difficilmente si accontenterebbe di fare il portatore d’acqua e se la sua candidatura dovesse realmente raccogliere troppi consensi diventerebbe una figura ingombrante. Prima di tutti proprio per Salvini.