Fenomenologia della premier
Chi è Giorgia Meloni: presidente del consiglio (per caso) sguaiata, populista e fuori luogo
I continui sbalzi vocali, l’enfasi con cui grida assolute banalità, le urgenze elevate a sistema. Meloni racconta il declino della politica e la grottesca povertà di contenuti della destra
Politica - di Michele Prospero
Con una delle iperboli verbali di cui è maestro, il governatore De Luca attribuisce a Giorgia Meloni uno “stile da stracciarola”. A vederla da Vespa mentre enumera la “sagra dello scazzatiello”, la “rassegna della zampogna”, la “festa del fagiolo e della patata”, dilungandosi sul “cecatiello” e sul “caciocavallo podolico”, è difficile non aderire alla provocazione del “cacicco” salernitano.
Secondo la underdog che veste Armani, la fiera è un tipico ritrovato del presidente campano per il quale “farsi la foto col caciocavallo fa più consenso”. La statista Meloni ipotizza che i voti si dilatino come chili di pasta filata.
Per questo il suo eloquio politico, modulato sulla “sovranità alimentare” a cui ha dedicato persino un ministero, non può che essere semanticamente povero di sintesi concettuali.
Prima dell’affondo di De Luca, altri l’avevano già etichettata come la “pesciarola”, dato il suo modo di esprimersi colorito, con picchi sonori dagli effetti spaccatimpani, e però così disadorno quanto ai contenuti.
L’entropia della comunicazione meloniana si può spiegare tecnicamente come il trionfo del kitsch politico. La totale assenza di sobrietà connota del resto i corifei della destra mondiale, che approfittano del crollo del sistema delle forme espressive della politica.
In una democrazia in frantumi, i modelli neoautoritari irrompono con anti-discorsi che confidano nelle tendenze depravate. Come rimarca il sociologo Norbert Elias, “kitsch è uno dei pochissimi termini in grado di segnalare un tratto comune a tutti i prodotti estetici del capitalismo”.
Dai lavori artistici improntati alla mediocrità, il tardo capitalismo lascia che la dismisura dozzinale penetri anche nella politica. Da Buenos Aires a Roma, i nuovi capi hanno facce poco serene e, per difendere il liberismo classista (secondo il vangelo di Giorgia, “lo Stato non deve disturbare chi vuole fare, le aziende”), adoperano le potenzialità manipolatorie di maschere rubate all’avanspettacolo.
La scelta della posa da “sfavorita” obbliga Meloni a scagliarsi contro le élites e a confessare l’assenza di una vocazione politica: “Nessuno dei miei sogni nel cassetto si è realizzato. Avrei voluto fare la cantante ma sono stonata, giocare nella nazionale di pallavolo ma sono nana, conoscere Michael Jackson ma è morto troppo presto. Tra questi sogni non c’era quello di fare il presidente del Consiglio”.
Appunto, una statista per caso. La politica-sketch implica un linguaggio che non mira ad afferrare la cosa, ad esprimere i reali accadimenti; il siparietto deve funzionare piuttosto come uno strumento di alterazione, e la sceneggiata comparire come una trovata artificiosa che attinge la “spontaneità” utile per la falsificazione degli eventi.
Si è da tempo infranto il codice espressivo della politica, e la opzione di Meloni, quale interprete del sentimento autentico della “Nazione”, è quella di accentuare ancor più la deriva verso il colloquiale.
Nessuna delle sue orazioni presenta una struttura logica codificata. Si susseguono descrizioni banali, improvvisi sbalzi vocali, inflessioni dialettali. Nelle imitazioni da cabaret periferico in cui si cimenta, abbonda l’intercalare tipico di un Pippo Franco: “vediamo, no”, “diciamo, no”.
Il discorso pubblico della destra, ricorrendo a gag da pellicola di serie B, gioca tutte le sue carte nella contrapposizione macchiettistica tra il giudizio raffinato degli specialisti (da ridicolizzare) e le preferenze più grossolane della massa (da blandire). Non serve ironia, arguzia, finezza per catturare l’applauso della platea educata alle esagerazioni della Tv spazzatura o alla melma dei social.
La discesa nel manierismo è palpabile dalla estetica del cattivo gusto con la quale Meloni si è fatta annunciare a Cagliari. Una voce roboante urlava: “la prima donna presidente del Consiglio della storia d’Italia, signore e signori sul palco Giorgiaaa Meloniii!”.
Più che un comizio, sembrava una esibizione in un circo. Nella sua performance “il” presidente non tradisce mai le attese e si atteggia a comparsa di un teatro ambulante. A Piazza del Popolo, una volta, fu introdotta dal doppiatore Pino Insegno con una citazione del “Signore degli Anelli”.
Nella comunicazione meloniana è soprattutto la vista a volere la sua parte: i discorsi della leader sono impossibili da leggere, nessuna pagina sostiene infatti la prova della coerenza stilistica e argomentativa. Occorre guardarla in azione, Giorgia Meloni.
Gesticola, fa smorfie in continuazione, gli occhi appaiono sovente sgranati. Ascoltando una sua filippica, non si prova alcuna molla per riflettere su una connessione inusuale. La consueta chiacchiera è superficiale e non prevede alcun cenno di analisi inedita.
Si nota soltanto, priva di una qualche scintilla critica, la solita propaganda vittimistica sorretta dai sottocodici di una destra esclusa (a Cagliari Meloni scherza sull’antifascismo degli avversari con giochini di mimica facciale).
La capa della destra si trova a proprio agio in questa perdita di significato della politica, e il suo gergo rude investe in maniera sistematica sulle semplificazioni, le aggressioni verbali, le metafore vuote.
Nel capoluogo sardo cambia tono, fa una mossa stringendo le dita: “Ve lo ricordate lo spread, o ‘a sinistra con lo spread? Eh, hanno aspettato che salisse, che salisse, dai che sale, dai che sale”.
Alza le mani, i pugni vengono scossi, la voce accumula intensità: “Li mandiamo a casa, ci mettiamo un altro governone tecnico, ci inciuciamo tutti e ci rimettiamo al potere senza il consenso dei cittadini”.
Non contenta del crescendo ritmico, prosegue sullo stesso registro, stavolta con il supplemento di una simulazione di pianto: “Anche qui, ma ve lo ricordate il Pnrr? Il governo Meloni ci farà perdere i soldi del Pnrr. Speriamo, speriamo che ci fa perdere i soldi, oddio, oddio”. Poi conclude: “Che vi devo dire, signori? Fate voi, fate voi”.
Anche quando interviene in Aula, Meloni spezza abitualmente le antiche codificazioni proprie di uno stile istituzionale. Scrollando un fax, che attesta il contrario di quanto lei insinua, intende provare che “il governo Conte alla chetichella ha dato l’assenso al Mes, contro il parere del Parlamento, senza dirlo agli italiani, senza metterci la faccia, e con il favore delle tenebre”.
La scenetta, senza alcuna carica emotiva, termina con una frase piatta che svela quanto il bon ton istituzionale sia logorato: “Capisco la vostra difficoltà e il vostro imbarazzo, ma dalla storia non si esce. Questo foglio dimostra la scarsissima serietà di un governo che prima di fare gli scatoloni lasciava questo pacco al governo successivo”.
E però, se c’è un pacco a Palazzo Chigi, è quello che contiene la premier sempre viaggiatrice. Per raccogliere granchi lungo tutto il globo terracqueo, la donna al comando ha infatti assunto come propria cifra il viaggio, al punto da sembrare uscita da “Fratelli d’Italia” di Arbasino. Tornata da Kiev, è già in volo per il Canada.
In alcune trasferte il dominio dell’informale, che confligge con l’ufficio e il protocollo, trascina questo suo piglio confidenziale anche nel rapporto con i media, oscillando continuamente tra melodramma e pochade.
In conferenza stampa a Vilnius, sbattendo freneticamente le palpebre Meloni si lamenta per i tacchi a spillo che non la lasciano respirare: “mi fanno malissimo i piedi”.
In una tensione unica tra visceralità e raziocinio, si agita, sbotta: “quanto manca?”. Alla fine, ecco la precisazione: “No, è per le scarpe, chiedo scusa, non mi sono stufata di voi”. Reclamando i bisogni del corpo, abbatte le procedure, graffia le tradizioni e i codici.
Nella recita posticipata in cui la presidente risponde ai giornalisti sulla esplosiva condotta dei parenti neri in occasione del festone di Capodanno, non può mancare una scenetta degna della regia di Neri Parenti.
A Giorgia Meloni, che lancia uno smodato “sto a morì, regà” e corre alla svelta per liberare l’organismo dai liquidi in sovrappiù, tocca incarnare il ruolo di un Massimo Boldi alla romana.
La condottiera politica agisce senza più i riti del cerimoniale e scende a contatto con le dinamiche biologiche, annunciando in diretta tv: “Signori, io devo andare in bagno, non so come fare, vi giuro, vorrei farcela per altre tre domande, ma…posso? Che devo fà, scusatemi”.
La civiltà delle buone maniere pretenderebbe, chiarisce Elias, un progressivo freno delle emozioni, il raffreddamento degli impulsi, degli scatti passionali, delle esigenze private.
La certezza che il potere può tutto, e scioglie quindi da ogni vincolo, suggerisce invece a Meloni l’ostentazione delle urgenze corporali vissute come sofferenza, dolore, occorrenza immediata. In quella battuta è racchiuso uno smarrimento del controllo di sé.
Il possesso dello scettro giustifica un allentamento delle autoregolazioni operanti entro organizzazioni che richiedono misura, condotte interiorizzate.
La camera da letto o la toilette diventano nella cultura europea luoghi solo privatizzati lungo un processo che comporta “l’appartarsi dalla vita pubblica per soddisfare i bisogni naturali” (Elias).
La messa in piazza delle necessità fisiologiche rappresenta un abbassamento delle soglie di sensibilità che nel tempo del populismo si trasforma in un fenomeno inarrestabile.
La destra con la sua politica maleducata calibra termini, gesti, simboli che stimolando esplosioni irriflessive parlano al pubblico vasto della post-società.
Acclarata la debole capacità di accertamento razionale dei singoli elettori, il politico recupera persino il trash per sprigionare una sorta di funzione liberatoria dell’eccesso. Coloro che si oppongono vengono branditi da Meloni come “partiti estremisti e rabbiosi”.
Ella si pronuncia su tutto, anche su Ferragni e Sanremo, e però rimane a lungo muta dinanzi ai poliziotti che percuotono i crani dei ragazzini.
Quando decide di emettere un suono, preferisce infilzare il Colle più alto che con la sua denuncia ha tolto “il sostegno a chi ogni giorno rischia la sua incolumità per garantire la nostra”.
A Cagliari si vantava delle numerose medaglie della sua squadra. Può aggiungere, a quelli fasulli da lei elencati, un record vero: è il primo governo che manda in un reparto pediatrico i suoi più temuti oppositori.