Parla la politologa
Intervista a Nadia Urbinati: “Truppe Ue in Ucraina sarebbero una catastrofe”
«Rispetto all’Europa, l’opinione pubblica americana ha meno paura di criticare Netanyahu. Agli elettori dem non piace la politica filo-Israele di Biden, la Casa Bianca deve trovare il modo di far finire questa guerra»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Dal voto sardo, e le lezioni da trarne sul piano nazionale, alle presidenziali Usa. L’Unità ne discute con Nadia Urbinati, accademica, politologa italiana naturalizzata statunitense, docente di Scienze politiche alla Columbia University di New York.
Professoressa Urbinati, fuori dalle letture di parte, qual è a suo avviso il segno politico prevalente nel voto regionale in Sardegna?
La serietà della candidata alla presidenza della Regione Sardegna, Alessandra Todde. Una candidatura molto forte di suo. In politica la soggettività del leader non esaurisce o surroga la proposta della coalizione, ma di certo aiuta a raggiungere l’obiettivo. È bene che a contare non sia solo la percezione di popolarità costruita dai media, ma anche la specifica qualità del candidato. Nella democrazia elettorale, uno non vale uno; le capacità, l’empatia, la conoscenza dei territori, fanno la differenza. E in questo caso, la fanno in positivo. Alessandra Todde è una persona competente, e ciò mostra tra le altre cose, quanto cambiato sia il Movimento 5 Stelle, e quanto riduttivo (e strumentale) sia rubricarlo come un mondo populista. Todde non rientra nello schema populista. A ciò va aggiunto che è stata una vittoria importante anche (o proprio) perché difficile. Ed è stata importante perché ha disvelato una verità, se si vuole banale, che doveva e poteva essere compresa prima, ma che evidentemente la direzione del PD nel 2022 non aveva inteso…
Vale a dire?
Che non si vincono le elezioni da soli. La vocazione maggioritaria in un pluralismo di partiti o significa capacità di costruire coalizioni o non significa nulla. Non abbiamo un sistema bipartitico. Il principio di realtà dovrebbe essere compreso dai leader e, anche, dai commentatori politici, che ancora dopo questa vittoria si interrogano sulla desiderabilità di proseguire con la politica delle coalizioni. La coalizione è una strategia politica ragionevole, importante, decisiva. È stupefacente come venga ostacolata, criticata, volgarizzata (ho letto addirittura del rischio di “assorbimento” del PD nei 5 Stelle). La democrazia elettorale è fatta di compromessi e di alleanze. Non si capisce altrimenti a cosa serva la diversità delle posizioni. La diversità dei partiti è importante per una scelta elettorale; quindi, se sono diversi devono essere capaci, in alcuni momenti, di alleanze pro o contro. In Sardegna è successo questo.
Quello sardo è un modello esportabile sul piano nazionale?
Non parlerei di modello. L’alleanza non è un modello, è una necessità. E qui c’è quel “tafazzismo” in cui troppo spesso indulge la sinistra, troppo subalterna ad una deleteria pubblicistica politica.
A cosa si riferisce, professoressa Urbinati?
L’alleanza delle destre è stata chiara fin dalle origini e non ha prodotto nessuna di quelle critiche che vengono riversate contro il centro sinistra quando cerca di fare le sue alleanze. Quando il PD cerca di fare alleanze con forze limitrofe, non con gli opposti, viene marchiato di “fusionismo”, di perdita di identità e via criticando. Quando invece le alleanze le fa la destra, tutto va benissimo, è un segno di forza, di capacità di manovra e via celebrando. Questa mancanza di reciprocità nel giudizio io proprio non la capisco. L’alleanza, insisto su questo, è una necessità. Dove si va da soli, si perde. Perché col 20% non si vince. È banale, ma è così.
Quella di Elly Schlein è una segreteria in perenne esame. È corretto dire che l’operazione messa in piedi per arrivare all’obiettivo di strappare alle destre la Sardegna, rappresenti una prova di esame superata a pieni voti?
Si è detto di lei che era una massimalista. Una “massimalista” che ha la caparbietà, diciamo pure la testardaggine di andare avanti per un anno alla ricerca di alleanze! Chi opera in questo modo tutto può essere meno che una “massimalista”. Elly Schlein ha capito una cosa molto importante.
Quale?
Che un partito deve fare il suo mestiere che è quello di cercare di contrastare l’altra parte e di trovare i mezzi migliori per farlo. Non credo che sia facile neanche per lei interagire e trovare un punto d’incontro con i suoi “vicini di casa” politici. Ma ha dimostrato di essere capace di riuscirci, e per giunta in momenti particolarmente difficili. Io sono una istintiva, e non ce la farei. In questo senso, è una brava politica, paziente, riflessiva, che pensa secondo una temporalità dilatata, non del qui e ora.
Da una leader all’altra. Come esce dal voto sardo Giorgia Meloni?
Lei è al governo, e può considerare questi inciampi come fatti locali. Per Meloni non è necessario vincere come lo è per le opposizioni. Ha altre esigenze. Giorgia Meloni è una politica furba, astuta, ma ha un metodo d’interazione con gli altri quasi barbaro, villano, ama umiliare gli avversari e dominare sugli alleati. Buon sangue non mente. Cosa farà in futuro non m’interessa granché. Ciò che invece m’interessa molto è quello che è necessario fare per mandarla a casa.
E cosa, a suo avviso, si dovrebbe fare, oltre che rafforzare il campo delle alleanze?
Anzitutto cercare di unire a partire dalla società, non solo facendo le pur importantissime alleanze politiche. Se si coltivano solo queste ultime c’è il rischio di non andare lontano; vi sono ampi settori della società che non hanno forti associazioni di interessi, che non sono una “convenienza” coltivare per i partiti di destra, i quali vogliono far passare l’idea che la democrazia matura sia fatta di astensionismo, laddove, ovviamente l’astensionismo deve essere quello che a loro conviene, per esempio quello delle parti più deboli della società. Lo scollamento tra i gruppi sociali periferici e i partiti politici, è un problema che interroga non solo la sinistra ma l’intero sistema democratico; ma per la sinistra è un nodo ineludibile da sciogliere se vuole davvero provare a sconfiggere le destre. E per farlo occorre molto di più che un’alleanza con i 5Stelle o con Azione in una regione o un’altra. Occorre avere una politica di rappresentanza di quelle parti sociali che sono fuori dai radar, isolati e disintermediati.
Un tema cruciale è quello della guerra, dall’Ucraina alla Palestina. Una forza progressista come dovrebbe definirsi rispetto a questo?
Un discorso che vale per l’Italia, per l’Europa, ma anche per gli Stati Uniti. È un discorso complesso e che differenzia le varie realtà. Negli Stati Uniti, ad esempio, i Democratici sono più favorevoli agli interventi militari rispetto ai conservatori. Questo non vale, in linea generale, per l’Europa. Di certo, viviamo in un momento difficile, direi anche increscioso, per chi crede ai valori democratici. Perché è un periodo di guerra, un periodo nel quale le leadership sono drammaticamente importanti. La stupidità di leader improvvidi e poco saggi è stata in diversi casi all’origini delle guerre. L’Europa in questo momento è alle prese con una crisi molto seria. Se decide di mandare truppe, boots on the ground, in Ucraina, noi entriamo fisicamente, è il caso di dirlo così, in un confronto diretto con la Russia. E questo va assolutamente evitato.
Come?
Occorre cercare una soluzione politica di compromesso, pensando a come regolare i rapporti tra Ucraina e Russia nei territori ucraini a maggioranza russofona, ad esempio. Tutto, meno mandare militari. Sarebbe l’inizio della catastrofe. Questo non è pacifismo, questo è saggezza. Sappiamo cosa significa in Europa muovere gli eserciti.
E sul fronte mediorientale? Un tema, quello della Palestina, della tragedia di Gaza, che sta segnando molto il dibattito negli Stati Uniti.
È così. Innanzitutto, c’è da dire che il timore che c’è in Europa, Italia compresa, ad esprimersi contro il governo israeliano, qui in America non c’è. C’è un atteggiamento critico profondo rispetto al governo Netanyahu. E c’è anche la capacità di distinguere tra il diritto del mondo ebraico ad avere uno Stato e la politica che sta portando avanti il governo Netanyahu. Una politica di ostilità alla pace, che non nasce il 7 ottobre, con i terribili, esecrabili, attacchi di Hamas. Netanyahu e i suoi ministri di estrema destra hanno manifestato, mi si consenta il gioco di parole, ostilità a porre fine alle ostilità. Questa politica va nella direzione che nessuno di noi vuole, cioè sollecitare, alimentare l’antisemitismo. Su questo versante, l’opinione pubblica americana è molto più aperta alla critica al governo israeliano di quanto lo sia in Europa, dove si leggono cose che farebbero ridere se non fossero tragiche. Resta il fatto che quello del Medio Oriente è un problema enorme per gli Stati Uniti. Lo si vede anche dal loro modo di agire nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. È difficile per la Casa Bianca dissociarsi in una maniera formale. Da qui, la ricerca di forme indirette di dissuasione sul governo israeliano e di forme alternative di aiuto alla popolazione palestinese, attraverso Ong (ve ne sono molte impegnate a Gaza e in Cisgiordania); ma ufficialmente il governo americano non modifica la sua politica. Quanto questo inciderà sulle elezioni presidenziali, è difficile ipotizzarlo. Di certo, e lo si è visto nelle primarie che si sono chiuse mercoledì scorso, gli elettori democratici hanno votato a favore del partito ma non di Biden. Hanno votato affermando di non condividere la sua politica troppo “filo Israele”. E questo vale soprattutto per l’elettorato giovanile e di nazionalità araba. Questo dovrebbe far riflettere e orientare molto lo staff di Biden. L’amministrazione democratica deve riuscire a porre fine a questa guerra al più presto. Sarebbe esiziale una campagna elettorale e un voto mentre ancora imperversa la guerra in Medio Oriente, ancor più che in Ucraina.
Il 2024 è un anno elettorale. E le elezioni più importanti sono quelle americane di novembre. Biden sarà il candidato democratico?
Biden finora lo è. E lo sarà certamente fino alla fine delle battaglie per le primarie. Nessuno sa cosa succederà ad agosto. Se sarà conveniente una sostituzione prima o si pensa a una sostituzione dopo le elezioni. Il problema esiste. Teniamo conto che anche Trump ha i suoi problemi di senilità, come emerge dalle sue ultime dichiarazioni, in cui è apparso visibilmente confuso, si è sbagliato con i nomi e altro. Ma in questo caso, mal comune non fa mezzo gaudio.
Se faccio il nome Michelle Obama…
Michelle Obama è molto attraente fuori dagli Stati Uniti, meno all’interno. Non credo ad una sua candidatura. Del resto, lei non si è mai espressa, si è chiamata fuori dallo scontro politico. Certamente è una donna molto intelligente, ma la percezione è che si tratti di una candidata di ceto benestante (in Italia si direbbe radical chic), un argomento che i trumpisti amano. Comunque sia, sembra improbabile una sua candidatura. Invece si parla tra politologi delle due donne, nessuna delle due eccelse, ma in un simile rapporto rispetto ai rispettivi capi, vale a dire Kamala Harris e Nikki Haley. Se non fosse Trump il candidato repubblicano, sarebbe più facile una sostituzione di Biden in corsa. Se Trump resterà fino alla fine, lo stesso farà Biden. Harris e Haley sono due seconde, il cui destino politico è in qualche modo legato.