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Intervista a Sergio Bassoli: “Senza Stato di Palestina non ci sarà pace”

Intervista a Sergio Bassoli: “Senza Stato di Palestina non ci sarà pace”

Il 9 marzo a Roma con la Palestina e una pace giusta nel cuore. Della manifestazione nazionale di sabato, Rete italiana pace disarmo (Ripd) è tra le organizzazioni promotrici. Sergio Bassoli è coordinatore dell’esecutivo di Ripd.

Sabato prossimo è stata convocata a Roma una manifestazione nazionale per dire stop al genocidio in atto a Gaza. Genocidio. Parola che per molti, anche a sinistra, sembra impronunciabile. Ma allora come descrivere ciò che sta avvenendo da mesi nella Striscia di Gaza?
Dipende da come si vuole affrontare la questione. Dal punto di vista del diritto internazionale noi abbiamo trovato corretto attenerci alle parole della Corte Internazionale di Giustizia organo competente per valutare la denuncia presentata dal Sud Africa per violazione della Convenzione contro il genocidio da parte dello stato d’Israele. La sua prima valutazione è che vi sia un alto rischio di violazione ed ha comunicato ad Israele di evitare conseguenze devastanti nei confronti della popolazione civile, tali da tradursi in un’azione di genocidio, con una verifica da farsi entro un mese. Questo, quanto comunicato dalla Corte, credo che non ci siano altri commenti da fare. Mentre, se il punto di vista è quello politico, la condanna di ciò che sta accadendo a Gaza è netta, oltre ogni parola o definizione che si voglia dare. Israele sta compiendo un crimine di guerra che va fermato subito. Come non ci sono giustificazioni per quanto è accaduto il 7 ottobre, non ci sono giustificazioni per non schierarsi per l’immediato cessate il fuoco, per garantire assistenza alla popolazione civile di Gaza, esigendo la liberazione di ostaggi e prigionieri, nella formula proposta, il 6 novembre scorso, dalle associazioni israeliane, arabo-israeliane e palestinesi, “all for all”. Poi, si deve affrontare e risolvere tutto il resto, ossia, ciò che dal 1947 ad oggi, non è stato risolto.

“Fine dell’occupazione e riconoscimento dello Stato di Palestina sulla base delle risoluzioni Onu”. È una delle parole d’ordine della manifestazione del 9 marzo. Una richiesta che in Europa e in Italia non passa.
Noi lo stiamo dicendo da decenni, la questione palestinese va risolta con il riconoscimento dello stato di Palestina, sui confini precedenti al 6 giugno del 1967, con Gerusalemme capitale condivisa e con la continuità territoriale tra Cisgiordania, Gerusalemme e Gaza. Ciò significa dare ad Israele confini definiti (pochi ricordano che Israele è l’unico stato al mondo che non ha mai dichiarato i propri confini!!), porre fine all’occupazione dei territori palestinesi che dura oramai da 57 anni, affermando così il pieno diritto di autodeterminazione del popolo palestinese e di potersi avvalere di tutti gli strumenti del diritto internazionale, alla pari dello stato d’Israele. Membro di pieno diritto dell’Assemblea delle Nazioni Unite. Garantire ai propri cittadini tutti i diritti politici, civili, economici, sociali e culturali. E, va sempre ricordato che questa soluzione (due stati) significa 78% di Palestina originale per lo stato d’Israele e 22% per lo stato di Palestina. Nonostante ciò, la comunità internazionale, tra cui il nostro paese e l’Unione Europea, pur dichiarando di essere per i “due stati per i due popoli”, non fa nulla per renderla possibile e, questo, è uno dei grandi mali che ci trasciniamo da decenni, causa di tanta violenza, di tante violazioni dei diritti umani, delle convenzioni e delle risoluzioni delle Nazioni Unite. Se gli stati ed i governi consentono per decenni che uno stato, in questo caso, lo stato d’Israele, occupi militarmente ed economicamente un territorio ed una popolazione in violazione del diritto internazionale, costruendo colonie illegali ed impedendo l’accesso e l’esercizio dei diritti umani fondamentali ad un intero popolo, come la libertà di espressione, di libera circolazione, di associazione, di giusto processo, di discriminazione etnico-religiosa, cosa ci possiamo aspettare se non esplosioni continue di violenza, di odio e di repressione ? Anche oggi, si sente ripetere che occorre riconoscere lo stato di Palestina, ma poi, cosa aspettano stati e governi a porre fine a questa attesa?
Questo ingiustificabile ritardo ha permesso la crescita e la diffusione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e nel distretto di Gerusalemme, la frammentazione del territorio palestinese, ipotizzando altre soluzioni, come un unico stato bi-nazionale o una federazione di più stati, o un unico stato con pari diritti. Per quanto ci riguarda, la riflessione che abbiamo fatto all’interno della coalizione di AssisiPaceGiusta è che, ancora oggi, il primo passo per costruire una pace durevole sia il riconoscimento dello stato di Palestina al fianco dello stato d’Israele, con uguali diritti e status giuridico, unica soluzione oggi riconosciuta dal diritto internazionale, dalle convenzioni Onu e dall’unico accordo firmato dalle due parti (Oslo). Questo obiettivo è fondamentale per restituire un contesto di diritto, di convivenza e di reciproco rispetto, ponendo fine a questa lunga ed esasperante attesa che tanta sofferenza, violenza e morti ha causato alle due comunità. Raggiunto questo obiettivo, inizierà un’altra fase che, con tempo, saggezza ed impegno da parte di tutti, potrà dar vita ad altre soluzioni affidate e determinate democraticamente dalle due comunità e dai rispettivi gruppi dirigenti.

Il movimento per la pace viene tacciato di essere pregiudizialmente ostile a Israele, e c’è chi vi accusa addirittura di “antisemitismo”.
In realtà c’è chi ci accusa di tutto, anche di non esistere. Noi lavoriamo con palestinesi e con israeliani che si rispettano e che riconoscono il diritto di esistere dell’altro ed insieme lottano contro le discriminazioni, le ingiustizie e l’occupazione. Denunciare le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele e di tenere sotto occupazione milioni di palestinesi, proseguire con la politica degli insediamenti e della confisca della terra in Cisgiordania e l’espulsione dei palestinesi da Gerusalemme e l’isolamento della popolazione dentro la Striscia di Gaza, non è antisemitismo ma chiedere il rispetto dei diritti umani e di restituire dignità e diritto ad un popolo oppresso. Chi non vuole ammettere e riconoscere questa realtà, per essere amico d’Israele, diventa invece complice del clima d’odio, di violenza che sta portando alla distruzione del sogno stesso degli israeliani e dei palestinesi di poter vivere in pace e di avere un futuro di tranquillità e di sicurezza comune.
Vede, anche il dibattito e le divisioni emerse in alcune città in queste settimane dimostrano quanto sia complessa e delicata la questione israelo-palestinese. Per questo i nostri appelli sono frutto di un dibattito franco e profondo, che tengono conto delle diverse sensibilità di una coalizione larga dove prevale la volontà di rimanere uniti e di valorizzare il contributo di tutti per fermare le guerre, ricercare le soluzioni politiche e diplomatiche e non la corsa al riarmo, per proteggere ed assistere le popolazioni civili vittime delle guerre ma anche per denunciare le violazioni ed i crimini di guerra. E questo deve valere sia per la Russia di Putin, sia per l’operato del governo israeliano e per le azioni contro i civili di Hamas e della Jihad.

Di fronte a quella che Papa Francesco ha definito una “terza guerra mondiale a pezzi”, non crede che vi sia una sottovalutazione del pericolo da parte della politica?
Certo, siamo di fronte ad una escalation militare che si sta espandendo in ogni angolo del pianeta con il rischio di entrare, senza accorgersene, dentro ad una guerra globale. I governi che dovrebbero proteggere i propri cittadini ed essere tutori dell’ordine mondiale, rispettando e facendo rispettare i diritti umani ed il diritto internazionale, invece hanno abdicato e lasciato spazio ai grandi gruppi di potere economico e finanziario che concentrano ricchezza, creano diseguaglianze e determinano le scelte dei governi in funzione dei loro profitti e del controllo delle risorse naturali, energetiche e dei mercati. È il sistema ed il modello di sviluppo che ha permesso ad una parte dell’umanità, l’Occidente, di conquistare diritti, democrazia e benessere a scapito dell’altra parte dell’umanità, che non è più disposta ad accettare di essere mano d’opera da sfruttare, territori da depredare, mercati da invadere, obbligati a migrare per non morire di fame o vivere senza diritti. Non sono solo le popolazioni ed i governi dell’Africa, dell’America latina e dell’Asia a ribellarsi a questa situazione ma è anche il pianeta che non regge più le nostre emissioni di CO2, l’inquinamento dell’aria, delle acque e dei terreni. A queste crisi sistemiche; sanitarie, ambientali, demografiche, democratiche la risposta folle è quella della difesa armata, del riarmo e della guerra come risoluzione delle crisi. Ovvio che queste scelte ci portano alla guerra globale ed alla distruzione del pianeta.

Da Gaza all’Ucraina, altro fronte di guerra su cui il movimento per la pace ha agito con una visione che è stata tacciata di fare il gioco della Russia di Putin.
Dal momento che i governi europei, seguendo la politica Usa, hanno deciso di rispondere con le armi per sconfiggere la Russia di Putin, non è accettato alcun tipo di dissenso. È la logica della guerra. Saltano le prerogative democratiche delle libertà e dei diritti umani. Cambiano le priorità nei bilanci degli stati, non più transizione verso un’economia pulita e sostenibile ma ritorno al piombo ed al carbone, servono munizioni e sistemi d’arma. L’Ucraina è distrutta, la guerra non finirà se non con un negoziato e più tempo si aspetta e più morti e distruzioni ci saranno. Ma noi, europei abbiamo perso l’occasione per riprendere il percorso tracciato negli anni 70, quando si costruì l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Un’Europa fondata sulla pace e sulla sicurezza condivisa dall’Atlantico agli Urali.