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L’informazione è in coma, il potere è in mano a un pezzo vasto e corrotto del giornalismo giudiziario

Emiliano Fittipaldi, Carlo De Benedetti e Giovanni Tizian

Emiliano Fittipaldi, Carlo De Benedetti e Giovanni Tizian

Mercoledì il capo della Procura nazionale antimafia, Giovanni Melillo, e ieri il Procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, hanno illustrato le dimensioni del dossieraggio messo in piedi da una associazione di giornalisti e uomini della procura antimafia.

Dimensioni paurose. Melillo e poi Cantone hanno anche spiegato che un’operazione così vasta – parliamo di decine di migliaia di atti di spionaggio su cittadini privati – non può essere considerata opera di un sottufficiale della Guardia di Finanza e di tre giovani cronisti. È impensabile. È chiaro. I due magistrati hanno detto che si è messa in moto una macchina molto molto più grande.

Cosa possiamo dedurre da queste dichiarazioni-bomba rilasciate in modo ufficialissimo di fronte alla Commissione parlamentare antimafia? Che la politica e la vita pubblica italiana sono inquinate da una attività illegale che le condiziona e le imbarbarisce. Questo è certo.

Poi però, se leggete un po’ i giornali, capite un’altra cosa. Che esistono gruppi solidi di giornalisti, che in gran parte controllano molte delle scelte editoriali dei loro giornali, che lavorano con un metodo simile a quello che pare sia stato usato dal Domani.

Ottengono informazioni riservate da vari centri di potere della magistratura o dei servizi segreti, le usano per fare degli scoop, o per danneggiare personaggi della politica o dell’economia, oppure le usano per “metterle da parte” e farci qualcosa.

Non sappiamo cosa, non sappiamo quando. Il numero delle intrusioni illegali che pare siano avvenute in questi anni – non sappiamo ancora come, e su mandato di chi – fa capire che una grandissima parte di queste informazioni sono state “incamerate” e non utilizzate. Non sappiamo a carico di chi, non sappiamo dove si trovino ora, non sappiamo a quale scopo possano essere usate.

Non sappiamo, non sappiamo, non sappiamo. Già. Però una cosa la sappiamo: il giornalismo italiano – diciamo: gran parte del giornalismo, non tutto per fortuna, ma certo quello più attivo e più influente – è devastato da questi metodi e da questa idea di giornalismo che col giornalismo c’entra ormai molto poco.

È un problema molto grave, perché mette in discussione il buon funzionamento di una democrazia moderna. Una democrazia moderna non può funzionare in assenza di una struttura dell’informazione, e di un ceto giornalistico, almeno entro certi limiti onesti e liberi. In Italia non è più così.

E questa particolarità la rende diversa da gran parte dell’Occidente. La cosa più grave è che il giornalismo è in coma. La causa di questa atroce degenerazione – che mescola e confonde giornalismo e spionaggio – non va trovata nell’oppressione di un potere politico, come in genere succede nei regimi autoritari, ma ha cause interne.

Nasce dalle scelte di gran parte del mondo imprenditoriale che controlla l’editoria, e dal degrado nel quale è caduto gran parte del giornalismo che conta. È una china iniziata circa 30 anni fa. E oggi al traguardo.

Statene certi: la grande maggioranza del giornalismo italiano è fatta da gente seria e onesta. Anche molto capace professionalmente. Il problema è che questa gente conta niente. Il potere è in mano a un pezzo vasto e corrotto del giornalismo giudiziario, che ha invaso il mondo dell’informazione e lo ha preso prigioniero.