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Libertà di Stampa? No, è solo l’inferno dei diritti

Libertà di Stampa? No, è solo l’inferno dei diritti

Non si creda che la “libertà di stampa”, il “diritto dei cittadini a essere informati” e il “dovere dei giornalisti di dare le notizie” costituiscano solo il fascio di gagliardetti retorici messo a presidiare il giro di veline e i traffici del cosiddetto giornalismo d’inchiesta con le procure della Repubblica e con il mandarinato anonimo dello spionaggio di Stato.

Quei presunti valori costituzionali, infatti, sono impropriamente chiamati alla protezione di una cultura più vasta e penetrante, che di quel cosiddetto giornalismo d’inchiesta è semmai l’utilizzatrice finale.

Mezza da polizia segreta zarista e mezza da sgherri di una fungibile junta sudamericana, quella pratica giornalistica, che compila liste di nomi da monitorare e fa ricettazione di pezzi di mattinale e abbozzi di indagini che dovrebbero essere riservate, è asservita in realtà al precetto di legalità farlocca della cultura inquisitoria e antimafia che non solo non ripudia, ma anzi promuove, la ricerca della presunta verità facendo piazza pulita delle regole di giurisdizione e dei diritti dei cittadini, le une e gli altri considerati spiacevoli impicci sulla via per perseguire il bene di cui si fanno interpreti, in consorzio, lo strapotere inquirente e il giornalista di complemento.

Che lo Stato si munisca persino di una Commissione parlamentare intestata all’”antimafia” e di una apposita Procura Nazionale e che, non casualmente, vengano da lì i sentori di certe nefaste compromissioni, è il segno di quanto poco il fenomeno possa essere attribuito solo ad accidentali malversazioni e a un malcostume poco sorvegliato.

Nel giro di pochi giorni abbiamo avuto una condanna in appello di un magistrato, Davigo, accusato di rivelazioni di segreti d’ufficio e pesantissimi indizi circa l’organizzazione dello spionaggio proprio nel ventre dell’antimafia giudiziaria.

E tuttavia rimane consegnata all’ineffabile l’immagine del presidente grillino dell’Antimafia che riceve i bisbigli di quel magistrato “nella tromba delle scale” del Consiglio superiore della magistratura, mentre si attribuisce alla presenza di qualche sperduta mela marcia e a inopinate difettosità funzionali quel che sempre più appare come un elemento costitutivo di quelle articolazioni dello Stato, cioè il fatto che siano sistematicamente prestate o almeno esposte al lavoro sporco che affastella “notizie” da riversare nel giacimento ricattatorio da cui pescare al momento buono.

È la cultura che ha fatto giustizia in Italia negli ultimi decenni, la cultura in nome della quale si celebra il verbo delle intercettazioni, si sacrificano sino all’annullamento i diritti della difesa e si ordinano ed eseguono i rastrellamenti giudiziari con il magistrato eponimo che annuncia il trionfo della sua rivoluzione in faccia a una foresta di telecamere e tra due ali di carabinieri.

A fornire la pasta giustificativa e narrativa di questa cultura è appunto quel presunto giornalismo d’inchiesta, ma esso si limita a mettere in bella copia (si fa per dire) una pretesa che in realtà lo sovrasta e lo comanda, vale a dire che al buon fine del trionfo sulla corruzione e sulla delinquenza organizzata possano essere apprestati mezzi che, col sigillo dello Stato, organizzano un sistema corruttivo e delinquenziale anche più grave rispetto a quello che vorrebbero combattere.

Viene dal preteso “bene” dell’antimafia, dal preteso “bene” che la giurisdizione poliziesca persegue abbattendo i diritti che si frappongono al suo lavoro, viene dal nocciolo originario di quella giustizia il male che si fa finta di identificare in una allarmante aberrazione mentre ne è la sistematica premessa e l’inevitabile destinazione. Quel giornalismo è il pus di un’infezione ben più profonda.