Dopo la batosta
Dopo la vittoria in Sardegna la doccia fredda d’Abruzzo: Schlein e Conte ripartano dai territori
La vittoria di Todde aveva illuso il centrosinistra che il vento fosse cambiato. Ma al netto dell’ottima prestazione del Pd e del tonfo dell’alleato grillino, il problema è demografico. Se non si torna nei territori interni, dove si vota destra, il trend non cambierà
Editoriali - di Michele Prospero
Dopo trent’anni, la sinistra ancora non ha appreso l’arte di ben interpretare il significato del voto amministrativo. Nel 1993 venne costruita la leggenda di una “gioiosa macchina da guerra” sulla base di una lettura strabica delle prime elezioni dirette dei sindaci.
Con il secondo turno, i progressisti vinsero in quasi tutti i grandi centri urbani. Ma, appunto, il trionfo avvenne solo in occasione del ballottaggio, che conferiva ancora alla sinistra un residuo plusvalore attrattivo verso i segmenti mediani dell’elettorato rispetto ai missini non ancora sdoganati.
Poiché la formula elettorale per le politiche – il “Mattarellum” – prevedeva un solo turno in collegi uninominali maggioritari, l’effettiva portata della competizione nelle città era racchiusa nella prima tornata, quando cioè il Msi divenne il partito più grande a Roma e a Napoli.
La discesa in campo di Berlusconi non era stata ancora comunicata, e però già si percepiva un epocale spostamento dei moderati verso destra, che non fu diagnosticato.
Anzi, la certezza della vittoria annunciata portò a una batosta storica, di cui ancora si avvertono le conseguenze poiché si trattava di una catastrofe di sistema. È bastato il buon successo in Sardegna per sprigionare i frutti avvelenati dell’euforia secondo cui “è cambiato il vento”.
Nell’affermazione di Todde bisogna attentamente distinguere due aspetti: da un lato, spicca la vittoria nella gara principale, ossia l’elezione diretta del presidente, che va giustamente rivendicata; dall’altro, però, una valutazione più politico-generale contiene altre informazioni: pur nella sconfitta del suo candidato (frutto anche della rivalità interna alla coalizione, con il regolamento di conti reso possibile dal meccanismo del voto disgiunto), la destra ha comunque tenuto se si guardano i risultati di lista.
È vero che, aggiungendo ai consensi dell’alleanza Pd-M5s anche le preferenze raccolte dal terzo polo, si può constatare una prevalenza numerica delle variegate opposizioni a Meloni.
E però, mentre è inoppugnabile un fatto certo come il rilevante consolidamento delle forze governative, ancora non è un dato politicamente acquisito la somma di tutti gli attori del campo larghissimo.
In virtù di una cattiva ermeneutica delle urne sarde, la sinistra ha commesso un errore da matita blu enfatizzando il connotato politico delle consultazioni locali abruzzesi.
Una sorta di indigestione, per l’accoppiata tra il mare sardo e i monti marsicani, ha sospinto verso l’obiettivo irrealistico di una sfiducia popolare complessiva al governo.
L’affrettata strategia della spallata è fallita perché l’espansione dell’astensionismo ha consentito alla destra di lucrare i vantaggi di una robusta mobilitazione identitaria.
L’arroccamento sulla difensiva ha rianimato un fronte sorretto dai simboli di potenza delle auto blu parcheggiate in ogni dove e dalle risorse clientelari a disposizione del governo locale.
Più ancora dei flussi registrati in Sardegna, lo scrutinio abruzzese rivela una destra che in termini assoluti incrementa di oltre 25mila voti la propria consistenza.
All’elemento quantitativo andrebbe poi affiancato un rilievo qualitativo: Marsilio vince ampiamente nelle aree interne dell’aquilano, dove la società civile, le reti politiche organizzate, la sfera pubblica sono un lontanissimo ricordo.
Poiché in Italia il 51% della popolazione vive in comuni con meno di 20 mila abitanti (il 16% è addensato in località al di sotto dei 5 mila residenti), emerge anche un visibile ostacolo demografico alla ripresa di una forte offerta di sinistra.
Il senso comune – securitario, ostile ai migranti, maldisposto verso il fisco e le “degenerazioni” dei costumi moderni – potrebbe essere scalfito solo dalla paziente riattivazione di pratiche di radicamento sociale-territoriale-identitario, tutti fattori che da tempo non esistono più.
La politicizzazione dello scontro abruzzese ha ricompattato la destra, alle prese con l’ormai irrisolvibile male di vivere di Salvini, ma in qualche misura ha rinvigorito il Pd, che sale al 20% e però si irrobustisce a scapito dell’alleato promesso, un M5s alla deriva.
Il Partito democratico, il quale mostra segnali di risveglio che mettono al sicuro la leadership di Schlein, in ogni caso farebbe bene a schivare la tentazione di una condotta speculare a quella adottata da Meloni.
Da una posizione di forza, con il potere assoluto in dotazione, la patriota può permettersi di umiliare il capitano leghista; da una condizione che nei fatti è meno favorevole, invece, il Nazareno dovrebbe privilegiare, rispetto alla scorciatoia bi-leadersistica, la paziente tessitura di una impresa coalizionale.
Non si tratta di presentare una scheda con una sommatoria di sigle, caratterizzate da leader litigiosi e rivalità intestine mai sopite, ma di un lavoro politico-programmatico attorno a questioni cruciali: pace-guerra, Europa sociale, lavoro e salute, difesa della democrazia costituzionale.
Due sono gli sbocchi al momento immaginabili: una coalizione massima vincente, con dentro tutte le formazioni alternative alla destra, oppure una coalizione minima più coerente (Pd, sinistra, Cinque stelle) la quale, solo dopo il voto, dialoga con un polo moderato che, nel sogno impossibile di sganciare FI dalla destra, rivendica intanto la propria autonomia.
In attesa che maturino i nuovi equilibri, resta il compito di svolgere una opposizione più efficace ad una destra che è in ascesa. Solo l’attitudine a rimotivare alla partecipazione l’ampio astensionismo critico della sinistra potrebbe mutare gli scenari allarmanti di oggi. Insomma, meno talk e più territori.