Le “montagne russe” del voto: dalla Sardegna all’Abruzzo. I campi larghi, giusti, accidentati. L’Unità ne discute con Alfredo D’Attorre, membro della segreteria nazionale del Partito Democratico, con la responsabilità dell’Università.
All’attività politica, D’Attore accompagna quella di docente (insegna Filosofia del diritto all’Università di Salerno) e saggista. Ricordiamo il suo libro più recente e di stringente attualità: Metamorfosi della globalizzazione. Il ruolo del diritto nel conflitto politico (Editori Laterza).
Il risultato dell’Abruzzo riporta con i piedi per terra il centrosinistra ridimensionando il risultato in Sardegna?
L’importanza del risultato in Sardegna, anzitutto per i sardi, resta tutta e nessuno di noi dava per scontata una facile replica in Abruzzo. Le condizioni politiche di partenza erano piuttosto diverse. Non solo in Abruzzo si ripresentava il presidente uscente, ma, se si guarda al dato più recente ancorché non omogeneo delle elezioni politiche, il centrodestra partiva con 26 punti percentuali di vantaggio rispetto alla coalizione che il Pd era riuscito a costruire nel 2022, a fronte dei 14 punti di differenza della Sardegna. Aver allargato la coalizione e scelto una candidatura credibile ha consentito di colmare il divario in Sardegna, ma era prevedibile che potesse non essere sufficiente in Abruzzo.
Un dato oggettivo è l’astensionismo di massa. Più della metà dell’elettorato non è andato a votare, penalizzando in particolare il candidato del centrosinistra.
L’astensionismo continua a essere un problema serissimo, anzitutto per la qualità della democrazia, ma non credo abbia inciso specificamente sul risultato in Abruzzo. Anche qui si conferma, nel rapporto di forza fra le due principali proposte di governo, la medesima tendenza politica di fondo emersa in Sardegna: il divario a vantaggio della destra, enorme nel 2022, si riduce drasticamente. Passa da 14 punti percentuali a zero in Sardegna e da 26 a soli 7 punti in Abruzzo. Il segno comune è quello di una partita politica che si riapre, nei territori e a livello nazionale. Ciò è l’effetto di due dinamiche complementari: il Pd è in netta ripresa e, soprattutto, riesce a costruire coalizioni molto più ampie e forti rispetto al 2022, nelle quali, peraltro, le forze che si alleano non vengono “vampirizzate”, ma ottengono buoni risultati. Rifletta anche Calenda sul 4% raggiunto dalla sua lista in Abruzzo, dubito che l’avrebbe ottenuto con una corsa solitaria, come la Sardegna insegna… Lo stesso dato del M5S va parametrato alla storica difficoltà del movimento in competizioni di questo tipo con il voto di preferenza nei territori, non dipende certo dall’alleanza con il PD.
La presidente del Consiglio parla di risultato storico, pochi giorni dopo aver affermato di essere già con l’elmetto. E il Pd?
La Presidente del Consiglio dovrebbe concentrarsi di più sulla cosa per la quale due anni fa ha chiesto i voti degli italiani, ma che evidentemente le piace di meno: governare. Abbiamo capito ormai che preferisce fare l’opposizione, ma per quello avrà a disposizione la prossima legislatura. Il Pd deve proseguire con determinazione sulla strada imboccata negli ultimi mesi: ispirazione testardamente unitaria nella costruzione dell’alternativa di governo alla destra e sempre maggiore chiarezza nel messaggio programmatico sulle questioni fondamentali che toccano la vita dei cittadini.
Il voto in Abruzzo ridà fiato al dibattito agro-politico sui campi. Campo largo, campo giusto. Non c’è il rischio che l’annosa discussione sulle alleanze cancelli o comunque metta all’angolo la ricerca da parte del Pd di una propria identità politico-culturale?
Lascerei da parte le dispute terminologiche, come saggiamente suggerisce Bersani, anche perché mi pare che nessuno di questi nomi accenda la fantasia dei cittadini… Nemmeno a me “campo largo” piace, perché suggerisce che basta aggregare forze diverse per vincere, mentre l’ampiezza dell’alleanza è una condizione necessaria ma non sufficiente. Una parte essenziale della missione storica del Pd in questa fase può consistere proprio in questo: fungere da elemento catalizzante di un’alleanza in cui nessuno rinuncia alla propria identità, ma tutti sono spinti a privilegiare gli aspetti utili a costruire una visione comune dell’Italia e del suo ruolo in Europa e nel mondo. Sulla base di una consapevolezza semplice: l’esasperazione delle differenze non porterebbe al rafforzamento delle identità, ma alla loro impotenza.
Che conseguenze può avere il risultato abruzzese sulle europee?
Personalmente penso che l’incrinatura dell’invincibilità della destra avrà un effetto anche sul voto delle europee. Ci potrebbe essere un pezzo di elettorato, parcheggiato nell’astensione perché rassegnato all’assenza di un’alternativa, che decide di tornare a votare. E per il Pd non c’è nessuna contraddizione fra il rafforzare il proprio profilo politico-culturale e svolgere una funzione unificante nella costruzione dell’alternativa. Dico di più: se vogliamo mandare avanti questo processo in modo costruttivo, dobbiamo introiettare con serenità l’idea che esso sarà segnato da elementi non solo cooperativi, ma anche competitivi, fra le diverse forze. Nessuno deve chiedere al M5S o ad altre forze di accontentarsi di un ruolo ancillare o di diventare la copia sbiadita del Pd, il che peraltro ridurrebbe lo spazio elettorale complessivo della coalizione. Il punto dirimente è piuttosto se la competizione e la valorizzazione delle differenze vengono portate avanti con la consapevolezza che, se non si fa vedere sullo sfondo un progetto comune, tutte le forze alternative alla destra risultano meno attrattive. E questo varrà già dalle europee: chi suonerà solo il tasto della competizione, e non pure quello della cooperazione, non credo sarà premiato, neppure in una competizione tutta proporzionale.
Non crede che il Pd dovrebbe focalizzare meglio le priorità della propria battaglia di opposizione?
Questo sta avvenendo man mano che il Pd recupera dosi di autonomia politico-culturale e non si fa più dettare l’agenda dall’esterno. Qualcuno ha confuso il fatto che Elly Schlein sia giustamente molto attenta alla dimensione comunicativa con l’idea che altri possano decidere ciò di cui il Pd si deve occupare o le posizioni che possono essere assunte. Uno dei meriti di questa segreteria è, a mio giudizio, quello di aver spiazzato le caricature e le previsioni di molti sui caratteri della nuova leadership e di avere rimesso al centro dell’iniziativa le questioni sociali: contrasto alla precarietà del lavoro, salario minimo, sanità pubblica, diritto allo studio, diritto alla casa. E anche di aver iniziato a rendere più concreto ed esigente il nostro europeismo, superando una certa postura acritica e subalterna del passato. Voler bene all’ideale europeo significa aver il coraggio e l’autonomia di criticare il ripiegamento dell’Europa su scelte del tutto inadeguate a questa fase storica, come quelle che stanno maturando in materia di immigrazione e regole di bilancio. Il nuovo Patto di Stabilità, molto diverso dalla proposta originaria della Commissione, nasce con l’assenso della Meloni, non del Pd. Sarà bene tenerlo a mente, quando saranno evidenti i suoi effetti sulle prossime leggi di bilancio e sulla tenuta sociale del Paese.
Crede che il probabile referendum sul premierato possa aiutare il compattamento di un fronte alternativo alla destra?
Le faccio una previsione che forse la sorprenderà: credo che non si arriverà neppure al referendum. Già oggi i sondaggi iniziano a segnalare che non c’è una maggioranza certa sul premierato. E non siamo neppure all’inizio dell’iter. Si figuri che all’inizio del 2016, con il testo già approvato dal Parlamento, quando eravamo in pochissimi a credere alla vittoria del No, la riforma Renzi-Boschi veleggiava attorno al 70% nei sondaggi, poi sappiamo com’è finita… La Presidente del Consiglio inizia ad aver chiaro questo rischio. Se a questo aggiungiamo l’impossibilità di tener fede alle promesse elettorali, specie in materia di fisco e pensioni, non credo sia azzardato pronosticare una fine anticipata della legislatura, con la Meloni che preferirà puntare su un rilancio elettorale alle politiche, per quanto rischioso, piuttosto che subire un lento ma inesorabile logoramento o affrontare la ghigliottina del referendum costituzionale.
L’assenza del gruppo dirigente del Pd alla manifestazione sulla Palestina non è stata un errore?
Non era una manifestazione che prevedeva l’adesione ufficiale dei partiti e, in ogni caso, diversi dirigenti e molti militanti del Pd vi hanno preso parte. Il punto è ora piuttosto rilanciare un’iniziativa rispetto al governo, che ha consentito l’approvazione in Parlamento della mozione proposta dal Pd sul cessate il fuoco, ma non sta facendo assolutamente nulla per tradurre in atti concreti quell’impegno.
Molto fanno discutere le considerazioni di Papa Francesco sulla “bandiera bianca” e la guerra in Ucraina. Lei come la vede?
Il Papa non ha parlato di resa dell’Ucraina, ma di assoluta necessità di un negoziato per la pace. È stato ed è sacrosanto aiutare l’Ucraina a difendere la sua indipendenza dall’aggressione di Putin, ma a questo punto non si può non discutere con gli ucraini quale sia oggi l’obiettivo della loro lotta e del nostro sostegno. La riconquista di tutti i territori occupati dai russi? La prosecuzione della guerra fino a un cambio di regime a Mosca? Sono questi obiettivi realistici senza un intervento diretto di truppe dei Paesi NATO, con tutto ciò che ne potrebbe conseguire? E può l’Ucraina reggere a lungo la guerra d’attrito, con risorse umane sempre più limitate, se l’Occidente si limita a inviare solo armi? Il Papa ha messo tutti di fronte alla cruda realtà di queste domande, ed è un sintomo non positivo per la qualità delle leadership occidentali che sia stato lui finora a dover compiere non solo un appello morale per la pace, ma un atto di responsabile realismo politico.
Come si può immaginare un credibile schieramento alternativo alla destra con posizioni così diverse sulla politica estera tra Pd e M5S?
Si può e si deve. Per usare una formula filosofica, nell’alleanza tra PD e M5S serve quello che Habermas definirebbe un processo di «apprendimento complementare»: il PD, nel garantire l’appartenenza dell’Italia al campo euro-atlantico, deve liberarsi dei residui di un turbo-atlantismo acritico e tornare ad alimentare la migliore tradizione di autonomia e coraggio della nostra politica estera dal dopoguerra in poi, mentre il M5S deve capire che la politica estera non è il campo della propaganda e che ci sono impegni e responsabilità internazionali a cui un Paese come il nostro non può sottrarsi.