Jeans “Valentino”. Piegati con cura. La grazia sbilenca dei marchi contraffatti. Una mano nera tremante, secca di salsedine, li tiene stretti come una reliquia. L’altra si aggrappa al bordo del gommone di soccorso. Lui cerca un appiglio nel vuoto, rischia di cadere in acqua, gli occhi sbarrati nella luce bianca dell’alto mare. Lo reggono con le braccia sotto le sue ascelle due ragazzi francesi. Non molla i jeans. Ce l’ha fatta, è in piedi sul gommone.
Ha il cappuccio grigio della felpa tirato su per difendersi dal sole, indica l’acqua, mi crolla addosso. Trema, tremerà tutto il tempo fino a notte. Avrà vent’anni. Venticinque facce lacere, solcate dal sale, in un gommone nero di dieci metri alla deriva. Alzano le braccia quando ci vedono arrivare, uno è a cavalcioni sui bordi del tender. Alcuni sono ragazzini, magrissimi, terrorizzati. Uno ha uno pneumatico intorno al collo, guarda il cielo. Un altro si porta le mani alla gola: “Water water”. Tutti neri, tutti maschi.
Erano più di cento, dicono subito. Senza cibo e senz’acqua. C’erano sette bambini e cinque donne. “Baby”, le braccia a mo’ di culla fanno il gesto del ninnare. Tutti morti, piano piano, di sete, di sole, di stenti. “Abbiamo pregato e abbiamo messo i cadaveri in acqua”.
Sono in balia delle onde da dieci giorni, un elicottero è volato a lungo, e spesso, a bassa quota sulle loro teste. Forse un elicottero della piattaforma petrolifera che si vede coi suoi fuochi ardere nel sole all’orizzonte. Non ha chiamato i soccorsi, non ha avvisato nessuno. Soltanto li ha guardati morire. Dall’alto. C’è poco tempo per tirarli via di qui. Tre motovedette della guardia costiera libica sono apparse nel radar. Siamo in acque internazionali a nord di Tripoli. Steso sul fondo del gommone nero c’è un uomo alto e possente. Incosciente.
Accanto a lui, supino, un ragazzo magrolino, sembra morto. Lo trascinano a bordo. Respira. Nello strattone per sollevarlo ha un sobbalzo, si volta di scatto, morde la mano del soccorritore. Si accascia a terra, sviene.
Per fare un trasbordo veloce i due gommoni di soccorso li abbiamo stretti a sandwich. A trascinarli si fa prima che a lanciare tutti i galleggianti. Non c’è tempo. Sono dentro, non vogliono sedersi. “Water, water”. La bottiglia d’acqua passa da poppa a prua, in tre se la litigano, cade in mare. Una seconda, l’ultima. Occhi sbarrati. Da un sacchetto di plastica verde salta fuori un cellulare con fotocamera. Asciutto. Capiscono che devono stare fermi sennò ci rovesciamo. Partiamo su un metro d’onda. Gli occhi neri, sbarrati, sono tutti a prua.
Quando vedono la grande nave, due con le mani indicano la scritta, si voltano, chiedono con gli occhi. “Ocean Viking, Europe” grida il pilota. Tutti fissano lo scafo rosso, in silenzio. Tremano. Un ragazzino, il più piccolo, sorride.
Arrivati sotto la scaletta il mare si alza. I soccorritori reggono in due da sotto le ascelle un naufrago alla volta. Lo mettono in piedi. Lo portano a prua. Aspettano l’onda per spingerlo su. Da bordo due braccia l’afferrano, lo tirano su di peso.
I medici e i mediatori, in piedi, formano un corridoio sopra la scala, li portano uno a uno sul ponte di coperta. Loro scivolano dentro quella scia di sorrisi sotto il sole. Si accasciano a terra. Sono tutti in ipotermia, hanno la pelle ustionata da una miscela di acqua di mare e carburante.
Forbici. I vestiti si sono incollati addosso ai loro corpi. Dieci minuti dopo il deck sembra la risacca di una riva abbandonata: un calzino grigio di spugna, un paio di boxer blu, cartoni di succhi Ace con la cannuccia. Acqua di mare. Ovunque il riflesso giallo dei grandi teli dorati anti-ipotermia.
“Gli ho tagliato via i calzini, i piedi erano talmente gonfi a forza di stare a mollo nel carburante che erano di un altro colore. Il carburante va tolto subito. Brucia. Sotto le docce li ho lavati io con il tubo, serve la pressione forte dell’acqua per mandarlo via. Hanno gli occhi terrorizzati, tremano, tremano ancora tutti. Non mangiano da dieci giorni”.
Ci sono 12 minori, due hanno meno di dodici anni. Vengono dal Senegal, dal Gambia, dal Mali, di due di loro non si sa. Sono tutti in pessime condizioni fisiche e psicologiche. I ragazzini hanno visto morire i loro compagni di viaggio. Uno a uno davanti ai loro piedi. Hanno visto donne e uomini morire di stenti. Hanno assistito ai sussulti dei moribondi, alla disperazione degli altri, alla rabbia, alla paura dei cadaveri, alle discussioni dei grandi su cosa fare con i corpi. Hanno visto gli adulti pregare, buttare a mare i cadaveri, hanno visto i corpi di bambini più piccoli di loro gettati in acqua sparire tra le onde. Hanno avuto paura di finire anche loro mangiati dai pesci, hanno ancora paura. I due in gravi condizioni non sono in grado di sopravvivere a bordo. La capomissione della Ocean Viking, Luisa, torinese, ha chiesto l’evacuazione medica.
Dopo un balletto di comunicazioni e rimpalli – Malta ha detto di essere troppo occupata, alla Libia non si può affidare nessun essere umano – prima delle cinque del pomeriggio è arrivato un elicottero dal Centro di coordinamento soccorsi delle capitanerie di porto di Roma.
I ragazzini avvolti nell’oro delle coperte termiche, appoggiati alle panche, sentono l’elicottero arrivare, quei corpi salire su in cielo e sparire lontano. I container sono aperti sulla grande coperta di legno, sui lati bagni e docce. Lì sotto riparati da un grande telone bianco mediatori e soccorritori si danno il turno tutto il tempo. I loro occhi formano una fitta rete di sguardi sul tappeto di persone stremate. Tutto quel che accade viene colto al volo: chi si isola, chi non beve, chi non vuole muoversi. Così si tenta di prevenire gli incidenti. Da dietro l’alta parete argentata del container arriva il rumore del mare. Il ponte è liscio, la luce del sole, ormai basso, cola tra le sartie. Sono salvi per caso. Li ha visti, nel sole di mezzogiorno, col binocolo, il ragazzo di turno agli avvistamenti sul ponte di comando della Ocean Viking.
Quel gommone nero alla deriva si è casualmente trovato sulla rotta della Ocean Viking che stava andando verso una barca di legno blu a rischio naufragio segnalata da Sea Bird 2, l’aereo della ong Sea Watch, a cinque ore di distanza. Ci si stava preparando a un salvataggio con tensione perché tre motovedette libiche, tutte date ai miliziani libici dal governo italiano, stavano attraversando il radar nello spicchio di mare davanti a noi.
Dagli smartphone sbucava intanto un Matteo Piantedosi abbronzato appena sbarcato a Bengasi che stringe la mano di Haftar e sorride a favore di telecamera.
Il sole è tramontato. Comincia a far freddo. I naufraghi sono seduti, al caldo, in uno spazio chiuso sulla coperta. Viste di notte, alla luce tremolante dei neon, nel silenzio rotto dal rumore del motore e dei respiri, quei visi di adolescenti sotto choc sembrano maschere antiche arrivate da un altro mondo di cui sono segno e messaggio.
Loro sono un black cargo, dopo secoli dalla fine della schiavitù dei neri, loro sono ancora un black cargo. Le barche ora come allora trasportano esseri umani. Ragazzi, giovani adulti, donne, bambini. Di carne e di ossa. Occhi neri, pelle scura. Sono pieni di illusioni, di paura. Il fondo del Mediterraneo è costellato dei loro corpi, finiti nel fondale o sprofondati tra le alghe ancora zeppi di sogni. Quei cadaveri divorati dai pesci nel buio marino, le loro speranze impigliate tra pezzi di barche affondate, sono i mostri delle nostre coscienze in agguato.