Il veto di Orban
Il Consiglio europeo dice sì a nuove armi: dove verranno prodotte e cosa cambia per la guerra in Ucraina
Borrell: “Il conflitto non è imminente ma i cittadini vanno preparati”. La linea è quella del sì alla produzione di armi, ma Berlino dice no agli eurobond
Politica - di David Romoli
Appena arrivato a Bruxelles per la riunione del Consiglio europeo, l’alto commissario Ue per gli Esteri Borrell sente comprensibilmente il bisogno di buttare acqua sull’allarme lanciato da quel passaggio della bozza di documento conclusivo che invita gli Stati membri a “preparare i cittadini a una crisi di sicurezza”. Cioè alla guerra.
Borrell stempera: “L’appello ai cittadini perché siano pronti alle sfide è positivo ma non bisogna esagerare. La guerra non è imminente. Sosteniamo semplicemente l’Ucraina”. Rassicura sì, ma fino a un certo punto. Perché subito dopo aggiunge che “dobbiamo prepararci per il futuro e aumentare le nostre capacità di difesa” ma anche perché il vertice, per quanto il ministro italiano Tajani si affanni ad assicurare che “non si tratta di un Consiglio di guerra”, proprio questo sembra.
- Ucraina, Zaporizhzhia sull’orlo del blackout e bombe sulla diga sul Dnipro: sotto attacco le infrastrutture energetiche
- Bombe su Kiev, la capitale ucraina per la prima volta sotto attacco dopo mesi di “pace”: rappresaglia su Belgorod
- Meloni: “No all’invio di truppe a Kiev, condanniamo le elezioni farsa russe nell’Ucraina occupata”
Certo, oggi la musica cambierà. Si parlerà di Pnrr e, su spinta italiana, d’immigrazione, ma il vero Consiglio è stato quello di ieri e ieri solo di guerra, anzi di guerre si è parlato. E se il no alla proposta di Macron delle truppe Nato impegnate sul fronte è largamente prevalente, di alternative alla guerra sino alla vittoria finale non se ne vedono e in un quadro simile quella proposta rischia prima o poi di rientrare dalla finestra.
Di guerra e armi capi dei governi europei hanno parlato a lungo, in apertura di vertice con il segretario dell’Onu Guterres, registrando, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, pienissima convergenza. Poi hanno ascoltato Zelensky, in videoconferenza, che non la ha mandata a dire. I sistemi di difesa area di Kiev “sono insufficienti”.
La scarsità di munizioni che penalizza l’esercito ucraino “è umiliante per l’Europa, che può fare di più”. Europa che non è osservatrice, pur se schierata, ma parte in causa perché “la guerra di Putin non è solo contro l’Ucraina ma contro tutta l’Europa e lo stile di vita europeo”. Dunque “deve perdere ed è questione di vita o di morte”. La conclusione, per il presidente ucraino, s’impone da sé: “Bisogna aumentare la produzione di armi e munizioni nel continente”.
È la linea lungo la quale si muovono i 27, del resto. La presidente dell’europarlamento Metsola, Ppe molto aperta ai Conservatori, lo dice forte e chiaro: “La Ue è stata creata per sostenere la pace ma l’invasione russa ha cambiato tutto”.
Ora si tratta di organizzare il riarmo, la produzione comune di materiale bellico. Come la si può finanziare? Il punto critico è solo questo: la Germania e i frugali si oppongono agli eurobond che i Paesi del sud, Italia in testa, invece invocano. Sembra il solito eterno braccio di ferro ma non lo è, non del tutto almeno.
La guerra, o meglio il prepararsi alla guerra “non imminente” è una priorità paragonabile al Covid nel 2020 e come nel 2020 i frugali dovettero arrendersi è probabile che in qualche misura dovranno farlo anche ora. I cannoni vengono persino prima del rigore. Ma non subito. Il commissario Gentiloni avverte in anticipo: “L’attualità ci impone strumenti di finanziamento comune. Non ci siamo ancora ma bisogna andare in quella direzione”.
I soldi, ancora prima che per le armi europee, servono per quelle ucraine e lì servono davvero immediatamente. Il cancelliere tedesco Scholz s’incarica di avanzare la proposta già caldeggiata dalla Commissione: “Le entrate degli asset russi congelati possono essere utilizzate per armi e munizioni di cui ha bisogno l’Ucraina”.
L’ostacolo dovrebbe chiamarsi Orbàn, e non a caso il presidente ungherese ha scelto proprio la giornata di ieri per congratularsi ufficialmente con Putin per la rielezione, provocando una reazioni ferma di Metsola: “Lui si congratula. Io no”.
“Siamo pronti a negoziare sugli extraprofitti degli asset russi. Purché non vadano contro gli interessi ungheresi né siano destinati alle armi”. Si profila l’ennesima trattativa con Orbàn, che farà pagare probabilmente a caro prezzo il suo semaforo verde sulla proposta di Scholz e della Commissione. Dovrà probabilmente muoversi anche stavolta Meloni, che rappresenta ormai il vero canale di comunicazione e mediazione tra Bruxelles e Budapest, ruolo che ne aumenta considerevolmente ruolo e peso specifico.
Guerra vuol dire Kiev e vuol dire Gaza. Borrell torna all’attacco: “Israele ha diritto alla difesa non alla vendetta. Quello che succede a Gaza è il fallimento dell’umanità. È inaccettabile e non deve essere accettato”.
È la posizione anche di Guterres e nessuno la contesta. Ma le distinzioni ci sono, anche se si esplicitano solo nelle sfumature. La premier italiana si rivolge al segretario dell’Onu, spinge per “una pausa umanitaria che porti a un cessate il fuoco sostenibile”.
Si schiera senza ambiguità contro l’opzione dell’attacco diretto israeliano su Rafah. Ma, come Metsola, appare molto meno sbilanciata dell’alto commissario o dello stesso Guterres contro Israele. Nel pranzo al Quirinale di mercoledì il presidente Mattarella aveva apertamente esortato la premier a fare il possibile per arrivare a una posizione comune su Gaza. In superficie quella posizione sembrerebbe esserci già.
Ma quando si parla di conflitto israelo-palestinese le sfumature sono tutto. Quando si parla di riarmo, invece, non è questione di sfumature: ieri la locomotiva europea ha cambiato direzione e l’ambiziosa strategia verde di quattro anni fa sembra lontana un secolo. Adesso è l’ora delle armi.