La “class action procedimentale” è un’inedita forma di azione diretta, da noi ideata e sperimentata nella città di Bari, che consente a qualsiasi cittadino italiano di agire a tutela del bene comune. Il nome nasce dall’intreccio tra l’esperienza anglosassone delle class action mosse contro i torti di massa e il diritto a partecipare che la legge sulla trasparenza delle pubbliche amministrazioni riconosce ai cittadini italiani.
La nostra prima class action procedimentale fu avviata nel 2009 con l’obiettivo di ottenere che il Teatro Petruzzelli fosse riconosciuto di proprietà pubblica. Il risultato di questa azione è stato il recupero di 43 milioni di euro per le casse dello Stato italiano.
La seconda fu avviata nel 2011 con l’obiettivo di ottenere la chiusura del Centro di identificazione e espulsione di Bari, oggi denominato Centro di permanenza per i rimpatri. Questa azione ha consentito di accertare trattamenti inumani e degradanti praticati dal Ministero dell’Interno nei confronti dei migranti trattenuti in quel centro con violazione dell’identità storico culturale della città di Bari, nota al mondo come luogo di accoglienza.
La terza, avviata nel 2020 nel pieno della pandemia da Covid-19, ha portato all’attenzione delle autorità responsabili e dell’opinione pubblica il diritto dei detenuti nella casa circondariale di Bari a fruire delle misure di prevenzione dal contagio.
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Nel 1896 il Municipio di Bari concesse ad Antonio Petruzzelli l’occupazione gratuita e perpetua della piazza Cavour per la costruzione di un Politeama. Quel contratto è nullo ed inefficace perché non è possibile concedere a privati l’uso perpetuo di una piazza cittadina.
L’art. 5 del contratto stabiliva comunque che in caso di incendio o crollo del Teatro il concessionario e i suoi aventi causa avrebbero dovuto ricostruirlo nel triennio successivo, pena la perdita di ogni diritto.
Nella notte tra il 26 e il 27 ottobre 1991 il Politeama fu distrutto da un incendio di origine dolosa. Enrico Dalfino, sindaco in carica, diffidò gli eredi del concessionario a ricostruire il Teatro entro il triennio come da contratto di fine ottocento.
Un mese dopo l’intimazione venne sfiduciato dalla sua stessa maggioranza e cessò dall’ufficio. Gli eredi di Antonio Petruzzelli neppure iniziarono le opere di ricostruzione, ma il nuovo sindaco Di Cagno Abbrescia, anziché dare corso alla diffida del suo predecessore, omise di reclamare la proprietà pubblica del compendio immobiliare.
Nel 2002 il Ministero dei Beni Culturali del Governo Berlusconi stipulò un protocollo d’intesa con gli eredi Petruzzelli consistente in un colossale regalo agli eredi Petruzzelli in danno dei contribuenti italiani.
Nel 2009 avviammo la class action procedimentale con la quale: intimammo al Comune di Bari di rivendicare la proprietà del suolo e del Teatro ricostruito, ci dichiarammo sostituti processuali dell’inerte ente locale, citammo in giudizio dinanzi al Tribunale civile gli eredi Petruzzelli e il governo, invitammo il governo a chiedere a sua volta, in ipotesi di declaratoria della proprietà privata del Teatro, il rimborso degli oltre quaranta milioni di euro impiegati dallo Stato per la ricostruzione.
Successe che: il governo aderì alla nostra azione legale chiedendo che il Tribunale affermasse la proprietà del Comune di Bari sull’intero compendio immobiliare o, in subordine, che condannasse gli eredi alla restituzione delle somme investite dallo Stato; il Comune di Bari, pur essendo il diretto beneficiario della nostra azione legale svolta in sua supplenza, si oppose e chiese e ottenne dal Tribunale la nostra estromissione.
La Corte d’Appello di Bari, con la sentenza n. 1976/2021, dichiarò che il Teatro Petruzzelli è di proprietà degli eredi del vecchio concessionario. È accaduto però che “class action procedimentale” sul Teatro Petruzzelli, sabotata dall’ente locale che ne avrebbe tratto vantaggio, ha consentito allo Stato di recuperare quarantatré milioni di euro.
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Questa seconda sperimentazione del protagonismo civico in supplenza nasce nel 2011, quando sulla stampa cominciarono a emergere allarmanti notizie sui trattamenti inumani erogati dal Ministero dell’Interno ai danni delle persone trattenute nel Centro di identificazione ed espulsione di Bari (oggi Centro di permanenza per i rimpatri).
Anche in questo caso, come per il Teatro Petruzzelli, utilizzando lo strumento giuridico dell’azione popolare previsto dall’art. 9 del testo unico degli enti locali, ci sostituimmo processualmente al Comune di Bari e citammo in giudizio civile il Ministero dell’Interno per far accertare e dichiarare l’illegalità delle condotte ministeriali ai danni dei migranti detenuti nel Cie.
Il Tribunale di Bari dispose una consulenza tecnica al cui esito, acclarato il trattamento inumano e degradante in danno dei trattenuti, accolse la nostra domanda e condannò il Ministero dell’Interno a risarcire il Comune di Bari per il danno causato alla immagine pubblica della città.
La Corte d’Appello sancì in secondo grado che il Ministero dell’Interno aveva danneggiato con il suo operato l’identità storico-culturale della Città di Bari, il cui Statuto poggia sui principi di accoglienza, solidarietà e inviolabilità dei diritti umani.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26801 del 2023, ha infine confermato in via definitiva quest’ultima qualificazione giuridica per cui è passato in giudicato il principio che la gestione del Cie di Bari viola l’identità storica e culturale della città di Bari.
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L’Organizzazione Mondiale della Sanità il 30 gennaio 2020 dichiarava l’epidemia da Covid-19 un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale. Il giorno successivo il Consiglio dei Ministri proclamava lo stato di emergenza sul territorio nazionale e con decreto del marzo imponeva l’obbligatoria misura igienico-sanitaria del “mantenimento, nei contatti sociali, di una distanza interpersonale di almeno un metro”, con tassativo divieto di “ogni forma di assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico”.
Alla luce di tanto nell’aprile 2020 avviammo la terza class action procedimentale con riferimento al sovraffollamento del carcere di Bari e notificammo al Ministero della Giustizia, al Comune e alla Città di Bari l’invito “a porre in essere con immediatezza, e comunque entro e non oltre giorni trenta dalla notificazione del presente atto, tutti i rimedi idonei ad assicurare nella Casa Circondariale di Bari le condizioni oggettive per il rispetto delle ripetute prescrizioni in materia di mantenimento, nei contatti sociali, di una distanza interpersonale di almeno un metro, di divieto di assembramento e di effettività delle misure igienico sanitarie a protezione della salute del personale penitenziario e dei detenuti”.
Tale richiesta muoveva dalla constatazione: che la Casa Circondariale di Bari, ubicata nel centro urbano della città capoluogo, era sovraffollata perché, a fronte di una capienza di n. 299 persone, accoglieva 434 detenuti oltre al personale penitenziario; che gli spazi detentivi non consentivano alle persone ristrette di rispettare le misure governative in tema di “mantenimento, nei contatti sociali, di una distanza interpersonale di almeno un metro” e di “divieto di assembramento”; che detta oggettiva impossibilità si traduceva nell’aggravamento dei rischi per la salute dei detenuti e del personale penitenziario, ciò che determinava la violazione delle carte internazionali dei diritti dell’uomo e della Carta Costituzionale della Repubblica italiana in materia di legalità e di divieto di discriminazione.
A fronte del mancato riscontro alla nostra sollecitazione aprimmo azione giudiziaria dinanzi al Tar Bari per veder dichiarata l’illegittimità del silenzio serbato dal Ministero della Giustizia a fronte dell’invito all’adozione di ogni misura amministrativa atta a garantire l’applicazione nella Casa Circondariale di Bari delle misure di prevenzione del contagio da coronavirus.
In primo grado il Tar Bari dichiarò inammissibile il ricorso, qualificandolo in termini di semplice “esposto/petizione/denuncia” di carattere “politico”; in grado di appello il Consiglio di Stato, in riforma della detta decisione, affermò il valore civico dell’iniziativa rispetto ai princìpi di tutela della persona umana fondanti l’ordinamento costituzionale, ma dichiarò ugualmente inammissibile il ricorso perché non riconobbe ai cittadini ricorrenti l’interesse ad agire a protezione della salute dei detenuti e del personale penitenziario.
Quest’ultima sentenza ha riconosciuto la rilevanza in tempo di pandemia dell’inviolabilità del diritto alla salute delle persone ristrette nelle carceri e del divieto di discriminazione ai loro danni.
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La nostra esperienza nelle tre descritte vicende dimostra che lo strumento giuridico della “class action procedimentale” può in taluni casi essere efficace difesa di spazi democratici quando la classe politica si dimostra non all’altezza dei compiti che la Costituzione repubblicana le assegna.