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Psicotest, narcotest, pagelle: sulla giustizia il dibattito più pazzo del mondo

Psicotest, narcotest, pagelle: sulla giustizia il dibattito più pazzo del mondo

Una cosa è certa: siamo il paese che può vantare il dibattito sulla giustizia più schizofrenico dell’universo. Sotto questo punto di vista dubito che molti dei protagonisti del medesimo riuscirebbero a passare il Minnesota test indenni. Partiamo proprio dalla nota polemica sui test agli aspiranti magistrati.

Intervento epocale, sostengono i governativi, finalmente inverato l’anatema del Cavaliere sulla tendenziale anomalia antropologica dell’Homus Magistratus. D’ora in poi non sarà più necessario sguinzagliare giornalisti investigativi di prim’ordine, e di sicura indipendenza, per andare a controllare se un giudice incaricato di decidere su di un caso delicato ha tutte le rotelle a posto; magari sbattendo sui giornali amici che indossa calzini dai colori stravaganti e per questo deve essere un po’ mattocchio.

Il check up glielo facciamo all’inizio e stiamo a posto per i successivi trent’anni. La stampa di destra esulta dando il benvenuto ai “test mentali” per le toghe, un preclaro esempio di informazione moderata.

Ora, a dirla tutta, e con il dovuto rispetto visto che sul tema la categoria ha il nervo scoperto, se proprio uno dovesse porsi il problema del profilo psicoattitudinale dei magistrati, con il lavoro stressante che fanno, sarebbe più logico che i controlli avvenissero in corso d’opera, cioè durante la carriera, non solo all’inizio. Questo però non si può fare, perché sennò i magistrati si arrabbiano sul serio.

Quello che si propone, minimizzano infatti i governativi, è di fare lo screening iniziale che si utilizza anche per le forze dell’ordine al momento dell’assunzione; il già citato minnesota test, niente di che.

In effetti la magistratura dovrebbe essere rassicurata dal paragone, se i controlli sono quelli non c’è nulla di che avere timore, basterebbe pensare al G8 di Genova o ai fatti di Santa Maria Capua Vetere per concludere che deve essere una cosetta a maglie larghe.

Invece i magistrati e il loro sindacato insorgono perché non gli pare vero riesumare il fantasma del Cav e delle sue battutacce, o forse hanno letto una delle domande dei futuri test, quella che recita “penso spesso che ce l’abbiano tutti con me”, e si sono immedesimati. Il che dimostra che se il test invece dei magistrati lo facesse il loro sindacato qualche problema a passarlo lo avrebbe.

Si scatena la polemica e la stampa nazionale amica della magistratura, cioè quasi tutta, immediatamente fa a gara con quella di destra per profondità di analisi e moderazione dei toni. “Assalto alla magistratura” è uno dei titoli più soft.

E uno già si immagina stuoli di strizzacervelli sparpagliati nei tribunali italiani con divani portatili che smascherano schiere di magistrati ansiosi o depressi per metterli all’indice. La gara a chi la spara più grossa viene però vinta da una nota cronista de La Repubblica esperta – si fa per dire – di giustizia, che dice senza imbarazzo che “psicologia e psicoterapia non sono scienze matematicamente esatte, proprio il contrario del diritto”.

In realtà, mentre la polemica è al diapason, i governativi hanno già fatto la loro strategica e consueta marcia indietro. Gli esperti della psiche interverranno ma sotto il diretto controllo di un magistrato il quale, forte del fatto che a lui non lo può controllare nessuno, stabilirà se i test hanno ragione o meno.

Una farsa nella quale alla fine tutti potranno vantare di aver vinto e che viene degnamente, si fa per dire, conclusa dal sublime scambio di battute tra il procuratore Gratteri e il ministro Nordio sulla necessità di alcol e narco test per gli eletti dal popolo e i membri del governo invocata provocatoriamente dal primo.

Uno si aspetta che il ministro mandi soavemente a stendere il Procuratore, rammentandogli che nei palazzi del potere ci si va su mandato popolare e non per concorso, il che significa che un matto in parlamento o al governo bene o male ce lo scegliamo al momento del voto mentre uno in tribunale o in procura ci capita per concorso.

Invece no, Nordio risponde che lui è pronto a farli i test; che Dio gliela mandi buona. Mentre infuria la psico-polemica, una delle poche innovazioni coerenti della legge Cartabia, partorita dalla commissione diretta da un presidente emerito della Consulta, peraltro magistrato, viene alla ribalta.

L’idea è che per valutare la vita professionale di un magistrato, più che il numero di telefonate al Palamara di turno, tornerebbe utile mettere nel fascicolo personale non i giudizi che si ritrovano ora – che sembrano ciclostilati da uno che alle elementari ha imparato solo gli aggettivi superlativi – ma esempi concreti e statistiche del curriculum professionale.

Apriti cielo, dopo la psico polizia appare il fantasma del Grande Fratello. La misura viene immediatamente tacciata di aprire le porte al carrierismo più sfrenato e di riportare la magistratura ai tempi bui in cui per fare carriera i giudici italiani buttavano il tempo a scrivere sentenze in latinetto. Il nesso sfugge a noi poveri mortali ma tant’è: se lo dice l’ ANM sarà sicuramente vero.

Siccome a via Arenula pensano di aver già dato molto con l’ideona dei test allora ragionano che in tema di carriera si può concedere qualcosina. Ecco dunque che nel fascicolo non saranno inseriti i provvedimenti o verificati gli esiti dei medesimi ma solo di un campione degli stessi.

Una sorta di lotteria delle sentenze e delle ordinanze dall’incerta concludenza statistica. In realtà così è l’ennesima norma manifesto che serve a poco. E serve ancora meno la pezza che ci si mette sopra quando dalle file della maggioranza e il solito Costa dall’opposizione qualcuno fa notare che la soluzione finale sembra una presa in giro.

Prontamente a via Arenula modificano ancora una volta la proposta dicendo che nel mitico fascicolo entreranno comunque “il trenta per cento” dei provvedimenti. Scelti da chi e come non appare chiaro; speriamo che non siano gli stessi chiamati a valutare la sanità mentale degli aspiranti uditori.

Mentre queste delicatissime questioni vengono dibattute scoppia il caso Decaro e la classe politica dà il meglio di sé sul tema dell’antimafia che, come ogni religione, se ne impipa delle categorie psicopatologiche anche perché da quelle parti i matti di solito li fanno santi.

Il fatto è noto, il sindaco di Bari, che di suo può vantare un curriculum di tutto rispetto sul tema della lotta alla criminalità organizzata, vede il suo Comune in odor di scioglimento per sospette “infiltrazioni” mafiose.

Gli esperti del ramo sanno che il termine dal vago sentore idraulico significa tutto e nulla giacché viene utilizzato per coprire un ventaglio di situazioni diversissime che lasciano un amplissima discrezionalità applicativa. Talmente ampia da scadere spesso e volentieri nell’arbitrio.

L’occasione sarebbe buona per aprire una riflessione sull’armamentario antimafia, in particolare sulla esondazione del potere prefettizio e giudiziario rispetto alla volontà popolare. Macché, diventa l’ennesimo derby tra osservanti del rito antimafioso, stavolta a parti invertite rispetto ai consueti schieramenti.

La destra, che spesso si è trovata i suoi nei panni di Decaro, invoca l’intervento di qualche prefetto di ferro, la sinistra grida al complotto da parte del ministro di polizia dimenticando le centinaia di volte che ha alzato la voce per chiedere lo scioglimento del “comune-di-roccasecca” di turno se il pronipote della cognata della colf di un mafioso di zona era stato assunto per fare le pulizie.

Per fortuna scende in campo Emiliano e dall’alto della sua indubbia competenza in qualità di officiante del rito garantisce l’osservanza da parte di Decaro. Nel farlo narra una parabola con lui, in veste di San Michele protettore, andato a domicilio da Satana per raccomandare il suo protetto che aveva sfidato le cosche a colpi di ZTL.

Decine di politici imputati di concorso esterno trasecolano, assieme ai loro avvocati, essendo stati mandati sotto processo per raccomandazioni o contatti molto più blandi. Decaro, invece di riflettere sul fatto che la sua paradossale situazione dovrebbe far ragionare sugli effetti perversi della legislazione antimafia, nega l’intervento di San Michele ma prima rovescia sul tavolo del Viminale decine di faldoni di carte che dimostrano la sua obbedienza e poi si lamenta giustamente che quelli non hanno avuto neppure il tempo di leggerle prima di valutare la necessità dell’ispezione.

Sembra di sentire le parole di quel senatore che, anni fa, chiedeva ai suoi colleghi almeno di leggere le carte prima di autorizzare il suo arresto. Richiesta inutile, il Senato autorizzò il carcere preventivo, che durò due anni e mezzo e il senatore venne poi assolto da un tribunale che le carte le lesse sul serio.

Inutile cercare una dichiarazione di solidarietà del Decaro di turno. Per fortuna è Pasqua e ci si può rilassare. Pare che sull’Olimpo si siano divertiti a somministrare il minnesota test a Dike. Alla domanda n° 37 che recita “a volte ho voglia di fracassare qualcosa” la dea della giustizia ha risposto “se guardo il dibattito sulla giustizia in Italia, tutto”.